10/04/2012
Yasmin Al Haque, responsabile Unicef per il Sud Sudan (foto Siccardi/Sync).
«Riusciamo a rispondere alle necessità solo in termini di emergenza. La sfida è enorme. Si dovrà sostenere questo Paese per lungo tempo. Non basteranno tre anni e nemmeno dieci. Il Sud Sudan è indietro di 50 anni rispetto al resto dell’Africa. A causa del conflitto, della mancanza di investimenti, della scarsità di infrastrutture. Per ora non riusciamo a lavorare sullo sviluppo, a causa delle pesanti priorità delle tante emergenze umanitarie». A parlare è Yasmin Al Haque, responsabile dell’Unicef per tutto il Sud Sudan.
La situazione che descrive implica un lavoro immane. «La percentuale di vittime nell’ambito materno-infantile è fra le più alte del mondo», aggiunge. «Abbiamo numeri elevati di malaria, diarrea, malnutrizione. Per un bambino sud sudanese arrivare in salute ai cinque anni è già un’impresa. È chiaro che sono necessari interventi giganteschi per permettere all’infanzia di questo Paese di avere le doverose opportunità di crescita sana e armonica». La dirigente dell’Unicef indica le priorità: l’accesso all’acqua potabile, l’educazione di ogni ordine e grado, la costruzione di un adeguato sistema sanitario.
Ma prima di tutto la lotta alla malnutrizione infantile: «Le sue conseguenze», spiega, «sono tali che i bambini non crescono bene, né in termini di sviluppo fisico né di maturazione intellettuale». L’istruzione è uno dei problemi più urgenti. Fra i 6 e i 17 anni solo il 30% dei ragazzi sa leggere e scrivere. Molti hanno cominciato a studiare con grande ritardo, a causa della guerra e dell’estrema povertà, anche a 12 o 14 anni. «Solo il 12% dei minori arriva alla licenza della scuola primaria», aggiunge Yasmin, «meno del 10% delle bambine. E non abbiamo insegnanti: possiamo contare soltanto sul 13% dei docenti di cui c’è bisogno».
Le cifre e i dati snocciolati dalla responsabile dell’Unicef trovano un immediato riscontro non appena si va in giro per il Paese. Famiglia Cristiana l’ha fatto insieme a un team dell’agenzia dell’Onu dedicata all’infanzia. Siamo andati a vedere cosa si sta facendo nell’area fra Wau, Kuajok e Gogrial, una piccola porzione del Sud Sudan, nell’area centro settentrionale del Paese. Abbiamo visitato centri nutrizionali, ospedali, ma anche i nuovi quartieri abitati dai “ritornati”, le 350 mila persone emigrate al Nord e rientrate in patria con l’indipendenza. C’è fame, ci sono troppi bambini denutriti, e troppe famiglie che si ritrovano fra le mani il sogno di una nazione libera ma niente altro per ricostruire le proprie vite.
Il punto di raccolta dell'acqua di Kuajok.
Nel corso del 2011, prima e dopo la proclamazione dell’indipendenza,
hanno preso quello che hanno potuto e in lunghe carovane hanno passato
la frontiera. Qui non hanno terra, casa, lavoro. Il governo ha
assegnato delle aree, in diversi dei 10 distretti che formano la
Repubblica del Sud Sudan. Ad esempio, la cittadina di Kuajok con
l’insediamento dei “ritornati” ha raddoppiato i suoi abitanti. Mentre le
agenzie umanitarie, le Ong e i missionari si occupano dei bisogni più
elementari della popolazione locale, devono affrontare anche le altre
emergenze: il sostegno a chi è tornato in patria, ma pure l’afflusso
delle decine di migliaia di rifugiati scappati dalle zone dove oggi si
combatte, appena oltre il confine, nelle regioni rimaste sotto il
controllo di Khartoum, il Sud Kordofan e il Blue Nile.
La nostra spedizione ha percorso queste poche centinaia di chilometri
alla fine della stagione secca. Fra qualche settimana comincerà quella
delle piogge. Ora è il momento più difficile: la temperatura sale a
40-45 gradi, non c’è più acqua, i terreni sono riarsi e le mandrie
(di cui il Paese è ricchissimo) sono state portate lontano, verso il
Nilo e gli altri fiumi. Tra poche settimane, verrà l’acqua, tutto
tornerà verde, ma arriveranno anche le calamità che la pioggia porta con
sé: la malaria, le malattie infettive, le bronchiti dei più piccoli. Il
neonato Paese africano oggi ha l’indipendenza tanto agognata. Ma
nient’altro. È all’anno zero.
In tutta la nazione le strade asfaltate ammontano a poche decine di
chilometri. Andare in ospedale è un’impresa e spesso si fa scuola sotto
gli alberi. Non ci sono industrie, non c’è lavoro, la guerra si è
divorata una generazione. È l’unico Paese africano dove non si
trovano, lungo le strade principali dei villaggi, le bancarelle
artigiane o le quattro assi con sopra una pila di uova e un po’ di
frutta e verdura. L’Unicef, presente con circa 200 persone di staff,
gestisce direttamente i progetti o sostiene in forma indiretta quelli
delle Ong che operano nel Paese. Si tratta di decine di interventi in
tutto il Sud Sudan. Una rete di solidarietà che di fatto fa supplenza
quasi totale per tutto ciò che riguarda l’infanzia: dagli ospedali alle
scuole, dalle vaccinazioni alla prevenzione del Hiv/Aids, dai
punti-acqua agli ambulatori contro la malnutrizione, dai centri
ricreativi e sportivi al monitoraggio delle madri in gravidanza e dei
neonati.
«Garantire le necessità minime quotidiane alla popolazione è già un lavoro gigantesco», spiega Alessia Turco,
responsabile del programma per gli aiuti umanitari dell’Unicef. «Il
problema è che ogni giorno ci si presenta un’emergenza nuova». Ci mostra
una mappa: sono 15, in questo momento, le aree critiche. La più
grave, forse, è quella dei rifugiati che scappano dalla guerra oltre
frontiera: 15 mila profughi nel campo di Yida, fuggiti dal Sud
Kordofan; altri 80 mila nella regione Nord-orientale, in fuga dagli
scontri nel Blue Nile. «Ma ci sono anche 200 mila sfollati coinvolti
nelle battaglie interetniche della regione di Jonglei», sottolinea, «e,
ancora, i 70 mila scappati dalla zona di confine col Centrafrica, dove
si sono verificate le incursioni e i saccheggi dei ribelli appartenenti
all’Lra, l’Esercito di liberazione del Signore guidato da Joseph Kony».
Ora incombe lo spettro di una nuova crisi umanitaria: il Governo di
Khartoum ha deciso che tutti i sud sudanesi presenti ancora nel Nord
dovranno tornare alla propria terra d’origine. Si tratta di 500-700 mila
persone. Un nuovo esodo biblico. Un’altra emergenza a cui presto si
dovrà far fronte. Tutto questo con fondi insufficienti. L’Unicef ha
chiesto poco meno di 100 milioni di dollari, sia per il 2012 che per il
2013. Finora, i Paesi donatori hanno elargito solo il 25% delle risorse
necessarie.
Anche per questo Unicef Italia ha intrapreso una campagna di raccolta fondi nel nostro Paese,
nella speranza che le famiglie e i privati cittadini vogliano supplire
alla risposta poco generosa dei governi dei Paesi ricchi (compreso il
nostro). Chi vuole contribuire può fare una donazione all’Unicef
(causale: “Lotta alla mortalità infantile in Sud Sudan”) nei seguenti
modi:
- c/c postale n. 745000;
- bonifico bancario presso la Banca Popolare Etica (iban IT55 O050 1803 2000 0000 0505 010);
- oppure con carta di credito al numero verde 800 745000.
Per saperne di più si può andare al sito www.unicef.it.
Luciano Scalettari