Beato chi rende il mondo più giusto

Don Luigi Ciotti e il filosofo Salvatore Natoli si confrontano sul tema della giustizia alla luce delle Beatitudini. L'anticipazione del volume in libreria da domani.

Ciotti: serve una nuova cultura dell'equità

17/04/2013
Don Luigi Ciotti a una manifestazione sul diritto al lavoro (Ansa).
Don Luigi Ciotti a una manifestazione sul diritto al lavoro (Ansa).

Anticipiamo il paragrafo "Pane negato e pane sprecato", parte del testo scritto da Luigi Ciotti per Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia (Lindau).

Di cosa parliamo, innanzitutto, quando parliamo di «fame» e di «sete»? Per non rischiare di essere generici, dobbiamo capire cosa quelle parole vogliano dire nel concreto, come il loro significato possa radicalmente cambiare a seconda della collocazione sociale e geografica. Così, se per chi fa parte del mondo del benessere, «fame» e «sete» sono solo due impulsi che è facile soddisfare, per gran parte del resto dell’umanità sono invece un tragico problema, una privazione che non può certo essere addebitata al destino. «Povertà e malnutrizione non sono una mera fatalità, provocata da situazioni ambientali avverse o da calamità naturali – ha sottolineato Benedetto XVI in occasione del vertice Fao del 2009 – d’altra parte, le considerazioni di carattere esclusivamente tecnico o economico non debbono prevalere sui doveri di giustizia verso quanti soffrono la fame».

Già nel 1967, però, nella Populorum Progressio, Paolo VI denunciava la povertà come effetto dell’ingiustizia sociale: «I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza». E più avanti: «Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario». Al di là della necessaria sottolineatura etica – sulla quale mi riprometto di tornare – quali sono però le dimensioni attendibili del fenomeno? Questa è un’altra lezione della strada. L’incontro con le persone non può prescindere da una conoscenza rigorosa e approfondita del problema sociale. È la saldatura fra accoglienza e cultura a rendere l’impegno sociale «politico» nella più nobile accezione del termine, ossia a trasformarlo in servizio alla comunità e in promozione di cambiamento. Non conoscere la reale entità dei fenomeni rende incapaci di comprenderli e soprattutto ci espone al rischio delle semplificazioni e dei «pensieri sbrigativi».

Ecco allora che i più recenti dati forniti dalla Fao e da «Save the children» (ottobre 2012) ci pongono di fronte a una realtà intollerabile. Sono attualmente 870 milioni le persone affamate. Circa 200 milioni i bambini sotto i cinque anni che soffrono di denutrizione, in un pianeta dove vengono sprecati ogni anno 1,3 miliardi di tonnellate di cibo (25 milioni nel nostro Paese, quantità che potrebbe soddisfare ogni anno i bisogni alimentari di tre quarti della popolazione). Quello dello spreco è tema che meriterebbe una riflessione approfondita.

Mi limito qui a sottolineare due punti. Il primo è che lo spreco materiale deve essere associato allo spreco immateriale. Ossia allo spreco di quelle vite condizionate dalla «fame» di possesso al punto di svuotarsi della loro sostanza relazionale, di quei legami umani e sociali che rappresentano la nostra vera ricchezza, la nostra possibilità di rigenerarci, la nostra speranza. Il secondo punto è che lo spreco va contrastato certo con scelte coraggiose (ad esempio rispettando l’impegno – ratificato nel lontano 1975 dei Paesi industrializzati – a versare una percentuale del proprio Pil per combattere la povertà globale, oppure con l’approvazione di misure come la «Tobin tax», che tassando le transazioni finanziarie potrebbero ridare ossigeno all’economia reale). Ma non c’è scelta e misura politica che possano dare risultati apprezzabili senza un grande investimento culturale.

Lo spreco – e le ingiustizie che ne derivano – non possono essere combattuti senza una generale rieducazione al consumo, educazione tanto più necessaria in un mondo dove l’interdipendenza dei processi economici può essere un’opportunità solo se governata da una visione ampia del bene comune, da un senso di corresponsabilità capillarmente diffuso. È bene tenere a mente questa «fotografia» quando parliamo di «fame», di «sete» e di «giustizia».

Luigi Ciotti (Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, Lindau)

Paolo Perazzolo
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