Il regista: «L'obiettivo era la conquista di Roma»

15/04/2013
Il regista Renzo Martinelli, al centro, sul set del film.
Il regista Renzo Martinelli, al centro, sul set del film.

L’appuntamento con Renzo Martinelli è ai tavolini di uno storico caffè milanese. Sui giornali e su alcuni siti on-line, sono già esplose le polemiche attorno a 11 settembre 1683. Per alcuni critici un film anti Islam. Una forzatura secondo lo storico Franco Cardini. Un’operazione inutile e costosa a parere di Nino Rizzo Nervo, ex consigliere d’amministrazione Rai. Diamo la parola a un regista scomodo ma, come sempre, capace di lucida analisi.

Martinelli, come le è venuto in mente di girare un film del genere?
“Tutto è cominciato dodici anni fa. Ero a Cinecittà per mixare Vajont: mi telefonano i miei collaboratori e mi dicono di accendere la Tv perché a New York sono state attaccate le Torri Gemelle. Resto scioccato. E come tanti mi sento costretto a confrontarmi con una realtà fino ad allora ignorata, quella islamica. Nel 2001, quasi nessuno di noi in Occidente sapeva chi fossero gli sciiti, i sunniti, i salafiti, i wahabiti… Ho cominciato a leggere, a documentarmi, a capire quali fossero le ragioni di un odio così profondo da parte di alcuni settori di quella cultura verso l’Occidente. Solo un odio viscerale poteva giustificare un attacco terroristico di tali proporzioni. Oggi, potrei scrivere un libro sull’Islam. Decidiamo, all’epoca, di fare l’anteprima di Vajont proprio nella valle della tragedia di mezzo secolo prima. Con i tubi innocenti, costruiamo una platea all’aperto da mille e cinquecento persone per proiettare il film proprio sulla pancia della famigerata diga. Era ottobre e il giorno prima cominciò a piovere. Non la finiva più, eravamo disperati”.

A quel punto, che cosa è successo?

“Pensavo di dover annullare tutto. Ma mi si avvicina un tizio, che di nome fa Diotisalvi Perin, e mi dice: ‘Non c’è problema. Abbiamo pregato Marco d'Aviano e domani spiove’. Io non avevo la minima idea di chi fosse. Un mio collaboratore fa delle ricerche e mi segnala due date: 11 settembre del 2001 e 11 settembre del 1683. In me comincia a suonare un campanello… Il giorno dopo, continuava a piovere che Dio la mandava, un diluvio biblico. Incrocio ‘sto Perin e gli dico: ‘Marco d’Aviano in Paradiso conta zero, qui piove a più non posso’. E lui, serafico, ribatte: tranquillo. Alle quattro del pomeriggio si è alzato il vento e nel giro di mezz’ora ha spazzato via tutte le nuvole: abbiamo potuto proiettare il film per quattro sere consecutive”.

Insomma, il suo film sarebbe un debito d’onore?

“Beh, scherzi a parte, è nata in me la curiosità di scoprire chi fosse stato questo Marco d’Aviano. Di lì poi il desiderio di raccontare un grande sacerdote cristiano che fece nel Seicento un’operazione di alta diplomazia. Altro che Giovanna d’Arco! La Pulzella è un mito ma, dal punto di vista storico, le sue azioni hanno contato poco o nulla. Se non ci fosse stato Marco d'Aviano, invece, il destino dell’Europa sarebbe stato molto diverso. Probabilmente, oggi noi tutti pregheremmo inginocchiati verso la Mecca”.

Un'altra scena di "11 settembre 1683".
Un'altra scena di "11 settembre 1683".

“Pochi anni prima di quella fine estate del 1683”, racconta Martinelli, “il sultano Maometto IV aveva scaltramente firmato un trattato di pace con l’imperatore d’Austria Leopoldo I, tranquillizzandolo circa le intenzioni dei musulmani. Nel Corano, però, è prevista esplicitamente la possibilità di mentire in funzione della jihad… La menzogna non è un fatto riprovevole come da noi, bensì positivo se serve alla causa dell’Islam. Mentre firmava la pace, Maometto IV preparava già il suo esercito. Leopoldo I era un regnante dal carattere debole: voleva farsi sacerdote ma si era visto costretto a salire al trono a causa della morte del fratello. Per le grandi decisioni, si appoggiava perciò al suo consigliere spirituale, che era proprio Marco d'Aviano. Le condizioni dell’Europa, dopo le distruzioni della Guerra dei Trent’anni, erano simili a quelle di oggi: un continente diviso in fazioni e letteralmente stremato, sia economicamente che politicamente”.

E perché i turchi avrebbero tramato in barba al trattato?
“Era oltre un secolo, dalla sconfitta navale di Lepanto nel 1571, che l’Impero Ottomano covava la rivalsa. Mai l’Europa era apparsa come un boccone così ghiotto … Un’Europa in cui le fazioni cristiane erano in lotta tra loro. La Francia del Re Sole parteggiava segretamente per i turchi, certa che una loro vittoria avrebbe indebolito l’Impero degli Asburgo al punto da consentire ai francesi di accaparrarsene i territori. Non immaginando che la preda successiva dell’Impero Ottomano sarebbe stata proprio la Francia. Per i turchi, le condizioni per un attacco erano perfette. Fu così che il sultano Maometto IV, nella primavera del 1683, diede ordine di muoversi a un esercito forte di 300 mila unità, al comando del gran visir Karà Mustafà. Vero è che non tutti erano guerrieri: c’erano al seguito migliaia di fabbri, sterratori, carpentieri, perfino donne e addetti alle cibarie per il conforto della truppa. Nella battaglia di Vienna, comunque, la proporzione di forze in campo restò almeno di tre a uno in favore dei turchi rispetto ai cristiani”.

E’ a questo punto che entra in gioco Marco da Aviano?

“Fu capace d’intuire, contro il parere di tutti, le vere intenzioni dei musulmani… La sua prima impresa fu quella di convincere Leopoldo I e papa Innocenzo XI che era indispensabile formare l’esercito cristiano della Lega Santa, perché i musulmani sarebbero presto arrivati alle mura di Vienna. Fu Marco a sollecitare il Papa”.

In che cosa consistette la sua abilità diplomatica?

“Pensate alla sfarzosa corte viennese del Seicento: tutti nobili ostili a chi non fosse stato di sangue blu. Prima le farneticazioni di questo frate, Marco d'Aviano. Poi l’arrivo del re polacco, Jan III Sobieski, privo di origini aristocratiche, diventato re per meriti militari (per loro, uno zotico). Ci fu una rivolta dei principi di Sassonia, di Baviera, di Leopoldo stesso. Nessuno lo voleva al comando dell’esercito della Lega Santa... Fu Marco d’Aviano a tessere pazientemente la tela diplomatica, convinto che Sobieski soltanto, forte della sua esperienza militare sul campo, avrebbe potuto sconfiggere l’esercito ottomano di Karà Mustafà, nettamente superiore per forze”.

Insomma, Marco vide giusto…

“Sobieski vinse facendo proprio quello che Karà Mustafà riteneva impossibile. Nella piovosa notte della vigilia, con i suoi compì un’impresa epica scavalcando il monte Kahlemberg: 62 cannoni e circa diecimila cavalieri scalarono nel fango i 600 metri d’altitudine, per poi attaccare il mattino successivo da posizioni di vantaggio lo schieramento ottomano. Soltanto l’accampamento di Karà Mustafà si sviluppava per circa due chilometri e mezzo: le retrovie dalla parte del Kalemberg erano state lasciate scoperte perché ritenute inattaccabili. Mustafà non volle dar retta agli ammonimenti dei suoi alleati tartari i quali, vista la mala parata, a quel punto lo abbandonarono. Sotto il devastante attacco degli Ussari alati, la più temibile e pesante cavalleria scelta dell’epoca, i turchi prima sbandarono e poi si ritirarono, in ritta".

Karà Mustafà e Marco D'Aviano.
Karà Mustafà e Marco D'Aviano.

Non tutti gli storici, però, concordano con questa ricostruzione dei fatti.  
“La missione di Karà Mustafà era quella di conquistare la mela d’oro, cioè Vienna. Dopo avrebbe marciato con le truppe su Roma: ‘Per far abbeverare il mio cavallo in piazza San Pietro’, le sue precise parole. L’obiettivo, insomma, era il cuore della cristianità. Altro che storie. L’idea era quella di trasformare la basilica di  San Pietro in una moschea, così come era già accaduto a Bisanzio con Santa Sofia. Ecco perché sono rimasto molto sorpreso dal libro di Franco Cardini, che ho letto, in cui si sostiene che le truppe di Mustafà avrebbero dovuto conquistare solo una roccaforte sul Danubio e fu invece per iniziativa personale che il Gran Visir disobbedì agli ordini del Sultano. Ma quando mai… Nella rigida gerarchia ottomana del Topkapi non sarebbe stata assolutamente possibile una simile presa di posizione. Così la pensa anche Valerio Massimo Manfredi, che ha scritto con me la sceneggiatura. E del nostro stesso avviso è Paolo Mieli, espressosi in tal senso in un articolo del settembre del 2009. Cardini e gli storici musulmani sostengono una versione politically correct, che addossa a un individuo responsabilità più ampie, pensando così di favorire il dialogo tra cristiani e musulmani. Ma io credo che solo sulla verità si possa costruire”. 

E la storia del frate guerrafondaio? E’ per questo pregiudizio che la figura di Marco d'Aviano è così misconosciuta?  
“Certo, è un frate scomodo. Se lo si decontestualizza dal suo tempo, se ne dà un’idea sbagliata. Ma è stupido giudicare la figura di Marco e il suo operato coi parametri di oggi. Bisogna avere ben presente la temperie socio-politica e culturale dell’epoca. Appare allora possibile e giusto che un sacerdote predicasse la guerra e si mettesse alla testa di una Lega Santa per contrastare un attacco che sarebbe stato micidiale per il futuro della Cristianità… Ed è naturale che, durante la battaglia,  Marco fosse in cima al monte Kahlemberg e col crocifisso in mano incitasse i guerrieri cristiani. Non perché fosse un sanguinario, ma solo perché era ben consapevole di quanto quello scontro fosse esiziale per la cristianità. Non tener conto del contesto dell’epoca è un errore di prospettiva che non dobbiamo commettere. A questo proposito, vorrei citare un bellissimo proverbio arabo: “Gli uomini somigliano più al loro tempo che ai loro padri”. Oggi viviamo un tempo di dialogo e apertura fra le diverse religioni, allora non era così. Marco da Aviano fu solo uno strumento del suo tempo. Anzi, direi uno strumento della Provvidenza”.  

Altre critiche sono rivolte al film per quanto concerne i costi. Nino Rizzo Nervo, ex consigliere Rai all’epoca dell’approvazione del progetto, dice  che per l’azienda di viale Mazzini si tratta di un film inutile e costoso…  
“Convincere la Rai è stata dura, perché c’era ostilità da parte di qualche settore dell’azienda. Alla fine ce l’ho fatta: viale Mazzini ha garantito 4 milioni di euro su 10, gli altri 6 li ho trovati io tra privati. Quando perciò il consigliere Nino Rizzo Nervo dice che si tratta, per la Rai, di un film inutile e costoso dice una sciocchezza. Sul fatto che sia inutile, discutiamo: non è che Rizzo Nervo possa decidere quali storie io reputi giusto raccontare. Sul costoso dice una palese falsità,  perché con quei soldi l’azienda si è garantita la distribuzione nelle sale di un film di lungometraggio e successivamente la messa in onda di due puntate da cento minuti. E di alta qualità, certo superiore ai loro prodotti medi. Inoltre, 4 milioni di euro è proprio il budget previsto dall’azienda per due prime serate di fiction: quelle su Modugno, ad esempio, sono costate 4,9 milioni di euro. Insomma, direi che sono critiche prevenute. Perfino la Direzione del Ministero per i Beni Culturali ha riconosciuto il valore storico del film accordando un finanziamento”.  

E quale sarebbe la ragione di tanto astio nei suoi confronti?  
“Dopo il flop di Barbarossa, si pretende di affibbiarmi un’etichetta politica: Martinelli è il regista della Lega. Niente di più falso. C’è chi mira ad allontanare l’attenzione dal fatto storico e dall’alto valore culturale della figura di Marco d’Aviano. Pensare che se s’interrogano dieci leghisti chiedendo loro chi fosse quel frate, nessuno ne conosce il nome. Questa maledizione del “Barbarossa” mi ci vorrà un po’ per scrollarmela di dosso”.

Sbagliò, come amico personale di Bossi, a farsi strumentalizzare?  
“E’ stata una scommessa persa. Anche se nel mondo resta il film della Rai più venduto, con quasi un milione e mezzo di euro di fatturato. All’estero, è stato visto come un film epico, senza controindicazioni politiche, con un grande protagonista come Rutger Hauer. Certo, col senno di poi sono bravi tutti. Resta il fatto che la mia scelta si è rivelata un errore. Anche se, prima dell’uscita, la Rai ci credeva. Il ragionamento era banale: allora c’erano 6 milioni di elettori leghisti, se uno su quattro fosse andato a vedere il film, l’incasso era assicurato. Non si è però tenuto conto del fatto che il pubblico leghista è genuinamente ignorante, non va al cinema. Ai veneti e ai piemontesi, poi, di Alberto da Giussano non frega nulla… E gli avversari politici hanno bollato Barbarossa senza neppure vederlo. Per me resta un buon film. Anche se è vero che oggi, se me lo chiedessero, non lo rifarei”.

Rievocare ciò mentre si predica il dialogo interreligioso è provocatorio?
“Credo di essere uno dei pochi, in Occidente, ad aver letto tutto il Corano. Facendo anche molta fatica. Ebbene, c’è scritto tutto e il contrario di tutto. A cominciare dalle sure sulla fede: ci sono quelle che invitano alla tolleranza e altre che, invece, incitano all’uccisione degli infedeli. Stessa cosa per quanto riguarda la donna. In fondo, si tratta di un testo composito, forse ancor più della Bibbia. Qual è il guaio di questa cultura e di questa religione? Trent’anni dopo la battaglia di Vienna nasce il filosofo Mohammed Bin Wahabi, fondatore del Wahabismo, che è ancor oggi la religione di stato in Arabia Saudita. E lui cosa fa? Restituisce dignità alla grande Umma: l’Islam sarà comunque la soluzione perché il mondo intero diventerà musulmano. Inoltre il Corano è “increato” : è sceso direttamente da Dio su Maometto. Da una parte così ridà dignità e orgoglio alla grande nazione sconfitta, ma dall’altra l’incatena perché nel momento in cui asserisci che il Corano discende direttamente da Dio, qualsiasi esegesi critica porta all’eresia. Insomma, ciò che fu scritto nel 622 d.C. non può essere storicizzato o contestualizzato (così come avvenuto col Vangelo i cui valori cristiani sono stati modellati attraverso i secoli). Ancora oggi, nel Corano c’è scritto che per la “shaarìa” occorre la testimonianza di due donne per pareggiare quella di un uomo. Questo è il dramma e il limite: chiunque, povero disgraziato, cerchi di dare un’interpretazione moderna del Corano, immediatamente viene accusato di apostasia. Questa cosa ha funzionato finché la cultura islamica è stata impermeabile”.

La situazione sta cambiando?

“Realtà diverse da quella musulmana sono oggi conoscibili da chiunque e ovunque, grazie a Internet o a Facebook. La rete non sopporta limiti ed ecco che cominciano a venir fuori le prime crepe. La cosiddetta “primavera araba” da dov’è che nasce? L’errore che noi occidentali commettiamo è quello di pensare al mondo musulmano come a un’unica galassia compatta. Non è così. I Sunniti sono la maggioranza e rifacendosi agli insegnamenti di Maometto non sono dei fondamentalisti. Gli Sciiti, al contrario, sono seguaci del genero di Maometto e oltre ai soliti cinque pilastri della fede islamica santificano la “jihad” giustificando il martirio: sono perciò estremisti. Poi ci sono i Salafiti, che si rifanno direttamente alle origini del Corano e perciò non ammettono alcuna variazione. I Wahabiti sono, se possibile, ancora più intransigenti. Lo dico senza alcun velleitarismo: oggi qualsiasi musulmano medio è intimamente convinto che, prima o poi, il mondo sarà interamente islamico. Per loro l’Islam è la soluzione a ogni problema. Ma poi gran parte dei musulmani attende fatalisticamente l’avvento dell’Islam, mentre c’è una minoranza che tenta d’imporlo con la forza”.

A suo parere, è perciò impossibile il dialogo tra cristiani e musulmani?
“La mia speranza è riposta nelle donne. Quando la donna musulmana prenderà coscienza di sé, del suo ruolo nella società, nell’economia e poi nella religione allora per la cultura musulmana giungerà il momento di fare i conti. Basta vedere, per esempio, ciò che sta accadendo a Teheran e più in generale in Iran. Con le tecnologie moderne sempre più potenti e invasive, a cominciare da Internet, l’impermeabilità del mondo musulmano è andata via via sfaldandosi. Prima o poi dovranno fare i conti con questo travaso di valori tra Occidente e Oriente. Comunque, per noi cristiani il vero problema restiamo noi stessi, è la debolezza della nostra fede”.

Non le sembra di metterla giù un po’ troppo dura?
“Se si pensa che siamo stati capaci di scrivere una Costituzione europea, formata da 90 mila parole, senza mai citare neppure una volta l’aggettivo cristiano… E’ una cosa che trovo gravissima. Ma come si fa a parlare d’Europa senza citare il Cristianesimo? Senza Cristo non avremmo avuto la musica, la scultura, la pittura, il Rinascimento. E poi il rispetto per l’altro, il rispetto per la donna. Nulla di nulla. Non è possibile rinnegare quella che è la nostra storia. E il mondo cristiano di oggi, con la sua debolezza, ha forti responsabilità per questa incredibile omissione. Recuperare i valori cristiani non significa però essere anti musulmani, solo essere consapevoli delle proprie radici e dei propri ideali. Il rispetto è tale solo quando è reciproco”.

Maurizio Turrioni

a cura di Paolo Perazzolo
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