Come uscire dall’autismo

Definire clinicamente l’autismo si rivela, da sempre, impresa ardua e complessa. Un nuovo approccio interviene sulla dimensione affettiva e corporea dei piccoli pazienti.

Verso la definizione delle differenze

15/03/2012

Ed è proprio su questo tipo di interferenza che ci siamo soffermati, attraverso le nostre ricerche, per capire le modalità attraverso le quali si dispiega il comportamento del bambino autistico, al fine di trovare gli strumenti utili ad agganciarlo. In attesa di un’esatta definizione dell’eziologia, gli sforzi del clinico devono essere rivolti a comprendere il tipo di funzionamento determinato dalla patologia autistica per trovare strumenti di valutazione, di comunicazione e di terapia idonei al contesto in cui opera. In questo tipo di ricerca i nostri sforzi si sono orientati, da molti anni ormai, verso una definizione delle differenze che caratterizzano i bambini appartenenti alla grande categoria disomogenea dei disturbi dello spettro autistico e alla caratterizzazione di un intervento che prendesse in considerazione la complessità del problema, non sottovalutando la specificità di ogni singolo bambino. Privilegiando, in un’ottica psicodinamica, una visione globale del piccolo e della sua patologia, abbiamo da sempre dato un’importanza fondamentale allo sviluppo affettivo come base per l’espletamento di tutte le funzioni cognitive.

I recenti studi in ambito evolutivo e le scoperte effettuate dai neuro-scienziati della scuola di Parma, hanno permesso di confermare la centralità della dimensione affettiva alla base di qualsiasi evoluzione del bambino dando un ulteriore impulso al nostro lavoro. Riteniamo, anche in base ai dati ottenuti con le nostre ricerche, che il deficit primario del bambino autistico riguardi la dimensione affettiva e non quella cognitiva, come le teorie di stampo cognitivo-comportamentale hanno affermato negli ultimi decenni. Questa divergenza di prospettiva teorica è responsabile di molti pregiudizi e incomprensioni e porta a sterili contrapposizioni che sono dovute, purtroppo, a una scarsa conoscenza del problema. Pensare ancora che la dimensione affettiva chiami in causa necessariamente una colpevolizzazione delle madri, significa misconoscere gli sviluppi della scienza in ambito evolutivo ed eludere la fatica di revisionare le patologie in base alle nuove conoscenze.

Magda Di Renzo,
Federico Bianchi di Castelbianco

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