Giovani: non solo rassegnati e passivi

I sociologi descrivono i giovani di oggi come "rassegnati", ma non tutti si bloccano sul pessimismo. Altri osano e regalano scossoni alla società.

Condizione di precariato

19/03/2012

La diagnosi maggiore di questa situazione riguarda la condizione di precariato occupazionale che molti giovani stanno vivendo. Da tempo le nuove generazioni costituiscono l’anello debole di un sistema economico nazionale da sempre segnato da molti squilibri, destinato a complicarsi ulteriormente a seguito della crisi che negli ultimi anni ha colpito i mercati finanziari di tutto il mondo. Così i giovani sembrano più di altri gruppi sociali pagare il costo della globalizzazione; o di una politica nazionale che per troppo tempo li ha relegati nella sfera dei non garantiti, avendo investito le non molte risorse più per quanti erano già inseriti nel mercato del lavoro che per chi stava affacciandosi a esso; o di un mondo del lavoro ormai sottosopra, con il Vecchio Continente che non regge le sfide dei Paesi emergenti, con molte imprese che investono altrove se il Belpaese non rivede gli accordi sindacali del passato e se non imbocca la strada della flessibilità occupazionale.

L’esito triste di tutte queste dinamiche è una generazione che ha appiccicata sulla propria pelle l’etichetta del precario, dell’instabilità occupazionale, dell’assenza di un reddito adeguato per pianificare il futuro. Saranno anche cresciuti in un clima da “bamboccioni” (come ha sentenziato a suo tempo Padoa Schioppa), ma oggi essi toccano con mano di avere poche possibilità di raddrizzare la loro esistenza. Circa un terzo dei giovani, ci dicono gli ultimi dati Istat, sono disoccupati e molti “abitano” quel Sud Italia che non riesce a scrollarsi di dosso l’etichetta della debolezza istituzionale e imprenditoriale. Ma a fianco dei disoccupati vi è un folto esercito di giovani a cui si aprono solo prospettive di lavoro precario, fatto di occupazioni saltuarie, in nero, part-time, a termine, a progetto, di rapporti flessibili, di contratti stagionali ecc. Tutti termini che indicano come un’ampia quota di soggetti sia involontariamente esposta a situazioni di incertezza, che vanno dalla durata del rapporto di lavoro alla mancata copertura assicurativa, dalla debole sicurezza sociale alla labilità di trattamento previdenziale. Tutti aspetti che intaccano i diritti del lavoratore, riducono la qualità della vita delle persone, condizionano la possibilità di pensare al futuro.

Sullo sfondo d’un quadro già fosco si staglia poi una categoria del tutto particolare, che più di altre sembra illustrare la crisi economica e di fiducia che stiamo vivendo. È l’esercito dei giovani “rassegnati”, che non hanno più orizzonti e vivono nel limbo del non lavoro e del non studio. Sempre più ragazzi dai 16 ai 29 anni non operano più alcun investimento, non sembrano chiedere più nulla né al mercato del lavoro, né alla scuola. Si tratta di giovani senza occupazione ma che non seguono corsi di formazione, non pensano all’università, né cercano un impiego. Rassegnati, dunque, a farsi mantenere dai genitori, a vivere alla giornata, a una marginalità sociale che li priva di aspettative e coinvolgimento. Le ultime statistiche ci dicono che oltre il 20% dei giovani vive questa singolare condizione “né, né” (né lavoro, né scuola), che affligge una parte consistente della disoccupazione giovanile under 25. Tuttavia non si tratta soltanto di un’anomalia italiana, in quanto in tutta Europa l’esercito dei Neet (Not in Education, Employment or Training) è in forte crescita, non risparmiando nemmeno le Nazioni dai fondamentali economici più forti dei nostri. Il primato per i giovani “rassegnati” spetta alla Spagna (32%), ma anche Germania e Francia non se la passano troppo bene, avendo il 12% dei loro giovani in questa condizione. Il profilo di questi giovani è allarmante. Non vivono il precariato e l’instabilità occupazionale come primo gradino per tendere a prospettive migliori. Non protestano nella società per rivendicare i loro diritti e conquistare spazi e posizioni decenti. Non operano delle “conversioni” formative (riqualificazioni) capaci di aprire loro sbocchi realistici sul mercato del lavoro. Semplicemente si arrendono, tirano i remi in barca, vivono con la testa da un’altra parte, si “sospendono” dalla società ma anche dalle loro responsabilità. Nessuna società può permettersi che una quota così ampia di giovani perda la fiducia e rimanga incastrata nel vicolo cieco della crisi.

Franco Garelli
Roberta Ricucci

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