13/07/2012
Oggi, dunque, la scuola naviga in un burrascoso processo di rinnovamento
istituzionale, inevitabile per la
trasformazione di tutti i contesti di riferimento:
sapere scientifico, culture
delle nuove leve di alunni e famiglie,
contesti professionali e di territorio.
La dimensione autoreferenziale
dell’istituzione deve lasciare spazio a
un servizio pubblico più capace di interpretare
nuovi bisogni e di dare risposte
più efficaci per una scuola inclusiva.
Chi scrive ha partecipato negli anni
a numerosi programmi di prevenzione
e promozione della salute mentale
attivati dall’Asl Milano, per alunni,
genitori e insegnanti. Ultimo(
20-07-09), il progetto di Psicologia
scolastica, innovativo perché non proposto
dall’Asl, ma elaborato da una rete
di 33 scuole primarie e secondarie
(finanziamento 285/97). La scuola
dell’autonomia e dell’inclusione riflette
sul proprio funzionamento organizzativo,
su quello che rappresenta nel
territorio e nell’immaginario collettivo,
sui ruoli professionali e la qualità
delle relazioni a tutti i livelli. Non più
psicologia nelle scuole con obiettivi riparativi,
ma per lavorare su quel sapere
psicologico che serve al raggiungimento
degli obiettivi dei Piani di offerta
educativa delle singole scuole, sulla
base della domanda espressa. Sentirsi
inclusi viene dall’esperienza di appartenere
a una comunità che lavora per
comprendere e soddisfare i bisogni di
tutti, diversi ma ugualmente essenziali.
Sembra il contrario del funzionamento
di un’istituzione autoreferenziale.
Il cammino d’innovazione non è
lineare, né facili le condizioni in cui
oggi la scuola si trova.
Infine, abbiamo rilevato dei cambiamenti:
minore centratura sul caso problematico,
aumento di interesse per le
dinamiche relazionali e la comunicazione
con le famiglie, maggiore condivisione
degli aspetti organizzativi istituzionali
e del lavoro di gruppo. Le criticità
non sono dissimili da quelle delineate
dal progetto I Care (Ferraboschi,
2009): autoreferenzialità di alcune
scuole, difficoltà di promuovere la
ricaduta dell’esperienza di formazione
su tutta la scuola; difficoltà organizzative
per turn-over di docenti e dirigenti,
pluralità di iniziative poco ricomponibili
in un sistema coerente,
non facile collaborazione con i dirigenti
scolastici, e anche fatica del cambiamento
come processo possibile, limitato
e verificabile rispetto ad aspirazioni
più astratte di rinnovamento generale.
Criticità importante per il nostro
tema, rilevata dal progetto I Care:
il permanere di una tendenza a delegare
la disabilità all’insegnante di sostegno
e lo stentato coinvolgimento dei
collegi docenti e dei docenti curricolari
nel tema “integrazione”, che si tende
ancora a marginalizzare. La bontà
di esperienze circoscritte stenta a diventare
patrimonio culturale diffuso.
Criticità permangono anche
nell’area della collaborazione con le
famiglie, senza le quali buoni piani
educativi individuali e di orientamento
al lavoro non sono immaginabili.
Ma, al di là delle affermazioni di principio,
tutti siamo colpiti dall’acredine
e dalla violenza degli scontri tra genitori
e docenti, che trovano quasi quotidianamente
una risonanza inquietante
da parte dei media.
Le famiglie delegano più di prima
alla scuola funzioni educative, i docenti
vorrebbero una maggiore partecipazione.
Rivendicazioni e sentimenti
di colpa per un gioco ostile di rimbalzo
di responsabilità che compromette
la possibilità di un patto educativo
veramente utile ai giovani. Paradossalmente
un docente che si accorga
di una difficoltà di un alunno, teme
che parlarne con i genitori significhi
manifestare critica e disapprovazione,
piuttosto che sollecitudine e ricerca
di alleanza per affrontare il problema.
I movimenti difensivi della colpa,
della delega, della pretesa prevalgono
sull’esame di realtà. Nel caso
della disabilità, una franca collaborazione
è ancor meno facile, perché il
circuito “colpa, impotenza, rivendicazione,
pretesa” è anche più impellente,
poiché la disabilità evoca storicamente
fantasmi molto pesanti, insieme
a un attuale, reale corredo di dolore
e di limitazione.
Una ricerca recente sul “fallimento
collusivo nel rapporto tra insegnanti
e genitori di alunni disabili” (Langher
et. al., 2010), aiuta a chiarire
quello che avviene non raramente tra
insegnanti e genitori di alunni disabili,
per i quali si parla di “simbolizzazione
molto aggressiva del rapporto con
la scuola” espressa dalla pretesa che la
scuola offra più servizi, più sostegno,
più ausili e dalla convinzione che comunque
quel che fa non basta mai.
In un clima di sospetto questi genitori
si sentono legittimati a diffidare e
a controllare l’operato dei docenti
con modalità molto fantasiose. Il mancato
sviluppo delle risorse personali
dei figli, viene attribuito all’incapacità
degli insegnanti, un buon numero dei quali risponde con atteggiamenti riparativi
e ipercomprensivi, aumentando
l’impegno oltre il dovuto per cercare
di soddisfare anche richieste improprie.
Le dinamiche descritte non sono
presenti nel campione di genitori
che frequentano gruppi e associazioni
di sostegno. Nella ricerca si ravvisa,
nella normativa sui disabili a partire
dagli anni ’70, una cultura sociale
«prodotto e strumento di un agito del
senso di colpa» in rapporto all’essere
sani/essere malati; di qui un’attitudine
risarcitoria e una reiterazione delle
affermazioni di principio sulla responsabilità
delle istituzioni (la scuola)
nel rimuovere «le condizioni invalidanti
che impediscono lo sviluppo della
persona umana e il raggiungimento
della massima autonomia possibile...
» (104/92, art.1, c.2). Se i desideri
non si avverano, è colpa di qualcuno, i
diritti sono stati violati, e perpetuare il
conflitto sembra il solo modo per tenere
lontano il dolore e la sofferenza
davanti all’altro danneggiato, dolore
che solo può essere lenito da un buono,
reale e ragionevole recupero.
I gruppi di discussione tra genitori e
docenti, spesso in preda a una reciproca
simbolizzazione aggressiva, condotti
dagli psicologi del progetto di Psicologia
scolastica, hanno concluso i loro
incontri con il vissuto di “una piacevole
scoperta”, l’esperienza di vedere al
di là dell’oscurità del livore e
dell’astio, la luce tersa che permette di
riconoscere problemi e di ricercare soluzioni
solidali. Con un po’ di scoraggiamento
potremmo dire che la cultura
della colpa, dei diritti calpestati, delle
relazioni di prevaricazione e di potere
connota un po’ tanto il nostro vivere
sociale oggi; con fiducia diciamo
che se questi eventi non emergono e
non si analizzano, resteremo preda
della coazione a ripetere, invece di cercare
scambi e relazioni che ci rendano
più contenti perché più costruttivi.
Emanuela Bittanti