25/11/2011
Jehad Abdulrahman, 21 anni.
- Quando e perché ha deciso di entrare nel movimento armato di liberazione?
"Avevo da poco compiuto venti anni, non ne potevo più di soprusi, di sentire i proclami di Gheddafi, dell’umiliazione cui ha costretto un popolo come il nostro per più di 40 anni. Così, lo scorso maggio, sono andato dai ribelli e ho chiesto di combattere. Nella mia famiglia molti hanno preso parte alla lotta armata. Purtroppo a metà giugno, mentre guidavo un macchina con dei ribelli come me a bordo, siamo stati colpiti da un proiettile che ha sfondato la portiera e mi ha preso in pieno la gamba destra. Sono salvo per miracolo".
- Ha visto le immagini della cattura e poi dell’esecuzione del Rais, si aspettava che finisse così?
"Non doveva andare così. Certo, a causa sua è stato versato molto sangue e vederlo finito ci ripaga di tanti sacrifici, di tante morti, degli stupri di massa sulle donne, delle violenze terribili a Bengasi non appena è scoppiata la rivolta, a febbraio. Ma è morto come un cane. Io non so chi abbia deciso di torturarlo e poi giustiziarlo, la mia idea è che avremmo dovuto portarlo davanti a un tribunale e poi processarlo. Alla fine sarebbe stato condannato a morte per i crimini di cui si è macchiato, ma noi avremmo mostrato al mondo che non siamo come lui".
- E adesso, come si immagina il futuro?
"Il futuro non è semplice. Muammar Gheddafi ha tenuto un intero Paese nell’ignoranza per 42 anni, le giovani generazioni hanno poca istruzione, pochi potevano andare all’estero e le nostre scuole funzionavano bene solo per una ristretta cerchia. È difficile costruire una nuova classe dirigente, ci vorrà del tempo. Dovremo affidarci alla saggezza delle generazioni meno giovani che hanno esperienza e conoscevano la politica da prima del colpo di stato, e alla forza di volontà e di rinnovamento di noi giovani".
Luca Attanasio