10/02/2012
Anna Maria Mori, giornalista e scrittrice, è nata a Pola, quand'era italiana, e poi ha vissuto l'esodo.
Da tempo Anna Maria Mori è impegnata nel tentativo di suscitare una memoria condivisa e non ideologica su quel che accadde alla fine del secondo conflitto mondiale in quel complicatissimo territorio che è "il confine orientale". Lo sforzo si è tradotto nei libri Bora del 1999, Nata in Istria del 2006, in alcuni documentari sulla sua terra d'origine e ora, in occasione della Giornata del ricordo, in un nuovo romanzo, L'anima altrove (Rizzoli). Un'indagine struggente e - come si vedrà - narrativamente originale che la giornalista e scrittrice, nata a Pola e poi esule, ha condotto sui temi dell'identità, dello sradicamento, dell'appartenenza, attraverso la vicenda di Irene, una donna non più giovane, "costretta" in un salto nel passato a incontrare, agli albori del Novecento, le vite di Natalia, Umberto e Renzo, su cui si era abbattuto il trauma dell'esodo forzato dall'Istria.
Come è nata la storia di Natalia, Umberto, Renzo e Irene?
«È il mio libro più sofferto, ci lavoravo da sei anni. Direi che nasce dall'idea della centralità della casa, del luogo dove ciascuno apre gli occhi sul mondo, sugli oggetti che sopravvivono alle persone e testimoniano storie».
Il libro si alimenta infatti di un singolare espediente letterio, per il quale sono le cose a farsi voce narrante...
«Parlano al posto delle persone, che non ci sono più o che la vita ha reso afasiche. Fra gli esuli, si incontrano quelli che straparlano e quelli che confessano: "Mio padre non me ne ha mai parlato". Io appartengo alla seconda categoria: per anni non ho voluto fare i conti, ho serrato il passato in un angolo della coscienza. Va detto che la storia di quel territorio è complessa, nemmeno io riuscivo a decifrare ciò che avevo vissuto da bambina, perché un bambino non capisce e non accetta l'ingiustizia. Non ha risposte alla domanda "Perché ci odiano?". Ci ho messo una vita per trovarle».
Al blocco psicologico personale contribuisce anche la mancata elaborazione di una memoria collettiva su queste vicende storiche?
«Certo. So che se dico che sono istriana, la maggior parte della gente pensa che sono fascista. È un pregiudizio duro da smantellare. Siamo passati tutti per fascisti, perché era più comodo pensare così, per slogan, che documentarsi e sforzarsi di capire. Eravamo una massa di fascisti e quindi, in fondo, pagavamo il giusto prezzo».
Italiani in partenza dal porto di Pola nel 1946 (foto Corbis).
La coscienza storica ha fatto qualche passo o siamo fermi a quei
pregiudizi?
«Il Paese ha cominciato ad aprire gli occhi, anche se sulle foibe più
che sull'esodo, che pure ha riguardato 350 mila persone. Devo dire che,
presentando i miei libri in tutta Italia, mi sono sempre trovata fra due
fazioni: da una parte i fligli dei partigiani, che mi avrebbero presa a
botte, dall'altra una destra che rivendicava meriti che non ha... A
tutti ricordo le specifiche responsabilità».
Nel suo romanzo descrive il senso di sradicamento, di non appartenza
che investe chi ha dovuto lasciare la terra nativa...
«Personalmente, sento ad esempio la distanza dalle architetture e faccio
fatica ad ambientarmi: il barocco di Roma, dove vivo, è splendido, ma
non mi appartiene. Il senso di appartenenza va di pari passo con il
senso di sicurezza, che solo il luogo dove si è nati e cresciuti può
regalare. Mi colpisce, ogni volta che torno là, sentir parlare una
lingua che non è quella che parlavo da bambina. Allora provo uno
stranniamento incredibile».
Paolo Perazzolo
A cura di Paolo Perazzolo