11/09/2011
Serge Latouche, profeta della decrescita.
Avete mai riflettuto sul fatto che se un'azienda produce e vende armi, o un qualsiasi altro prodotto provocando inquinamento o danneggiando la salute dei lavoratori, creerà un aumento del Prodotto interno lordo (Pil) di una nazione, mentre l'aumento della spesa per l'istruzione o la sanità vengono iscritte sotto la voce delle spese di un bilancio, e quindi determinano un deficit? Sembra chiaro che i conti non tornano. Eppure Stati e organismi internazionali si ostinano a considerare il Pil alla stregua di un totem, una divinità a cui inchinarsi e in base alla quale valutare la solidità di un Paese e della sua economia.
Per fortuna da un po' di tempo un gruppo sempre più nutrito di economisti ha osato sollevare qualche dubbio e il valore assoluto del Pil è stato messo in discussione. Un'autorevole scuola, che annovera nomi prestigiosi come Joseph Stiglitz e Amartya Sen, entrambi premi Nobel, ha elaborato anche per conto di Stati e organismi internazionali (come l'Onu o il Governo francese) degli indici più complessi e maggiormente capaci di fotografare lo stato di benessere di una società. Si parla appunto di indici di benessere, all'interno dei quali il vecchio Pil non viene cancellato, ma restitutito al suo ruolo effettivo di misuratore della produttività, e soprattutto viene integrato con altri strumenti, che indagano il livello medio di istruzione, la possibilità di accedere alla cure sanitarie, le condizioni ambientali, la mobilità e così via.
Non è però soltanto un problema di indicatori. La questione vera è se la crescita (economica) debba essere un imperativo assoluto e inderogabile. Ha senso correre verso un incessante aumento della produzione, o piuttosto porsi altri obiettivi? Ad esempio si potrebbe puntare a dare lavoro a tutti, lavorando tutti un po' meno. Oppure si potrebbe immaginare uno stile di vita in cui abbiamo meno necessità materiali e diamo più soddisfazione a quelle spirituali: si parla, con espressione pregnante, di sobrietà felice. Ha senso cercare di produrre sempre più auto, o converrebbe inventarsi uno stile di vita che riduca il bisogno dell'auto (e quindi dell'immissione di gas serra nell'aria, della corsa al petrolio con tutto ciò che ne consegue, delle costruzione di strade, del rumore...)?
Certo, la decrescita apre una rivoluzione, indica una direzione. Prima o poi bisognerà prenderla seriamente in considerazione.
Per chi volesse approfondire il tema, ecco qualche link e suggerimento bibliografico.
Siti: www.decrescita.it, www.decrescitafelice.it, www.decrescita.com.
Libri: Serge Latouche, Il tempo della decrescita, Eleuthera; Stiglitz-Sen-Fitoussi, La misura sbagliata delle nostre vite, Etas; autori vari, La soglia della sostenibilità, ovvero ciò che il Pil non dice, Donzelli.
Paolo Perazzolo
La prima puntata del dossier sulla Giornata mondiale dell'interdipendenza è stata pubblicata ieri (Il destino comune dell'umanità), la prossima sarà in rete domani sotto il titolo Il pianeta ha la febbre.