Alpini, l'epopea di Nikolaevka

Settant'anni fa gli italiani combatterono l'ultima battaglia della tragica campagna di Russia, rompendo l'assedio russo e uscendo dalla sacca del Don. La ritirata a 40 gradi sottozero.

Dalle nevi del Don alle sabbie dell'Afghanistan. Parla il generale Abrate.

26/01/2013
Il generale Biagio Abrate, alpino, Capo di Stato maggiore della Difesa.
Il generale Biagio Abrate, alpino, Capo di Stato maggiore della Difesa.

Il generale Biagio Abrate è capo dello Stato maggiore della Difesa. E' un alpino. Appartiene a uno dei corpi militari più noti (e più amati)  che hanno scritto una delle pagine più dense della campagna di Russia. È a lui che chiediamo, dunque, che cosa è cambiato in questi settant’anni per questa specialità della fanteria italiana.

Quali sono le differenze tra settant’anni fa e oggi?


«In settant’ anni è cambiato molto di ciò che sono l’impiego e le capacità operative dei reparti alpini. Allora il personale si muoveva quasi esclusivamente a piedi e con l’ausilio di quadrupedi per il trasporto dei materiali più pesanti. I famosi muli, a cui tanto debbono i nostri “veci”, e che ho avuto modo di apprezzare da comandante di compagnia. La realtà di oggi è completamente diversa. Gli alpini hanno in dotazione veicoli dotati di una significativa protezione per poter resistere agli ordigni che infestano le piste dell’Afghanistan, e dispongono di equipaggiamenti all’avanguardia, in molti casi di qualità superiore a quelli dei Paesi alleati: radio, visori notturni e armamento tecnologicamente avanzati. Inoltre è cambiata anche la “geografia” degli alpini. Fino al 2005, con la leva, gli alpini provenivano per la quasi totalità dalle zone montuose. Oggi sono un esatto spaccato della realtà nazionale: il reclutamento viene effettuato in tutta Italia. Ne consegue che, percentualmente, forse sono meno presenti i dialetti del nord ma le tradizioni, l’abitudine al sacrificio, l’esercizio della fatica che solo la montagna insegna, questi sono rimasti inalterati e, integri nella loro essenza, si sono trasmessi nel tempo e nello spazio dalle nevi del Don alle sabbie dell’Afghanistan».

Alpini in Afghanistan. Foto di Nino Leto.
Alpini in Afghanistan. Foto di Nino Leto.

Cosa resta negli alpini di oggi dell’esperienza vissuta in Russia dai loro predecessori?

«Da militare non posso che rispondere citando, prima di tutto, le bandiere e le decorazioni che le ornano. Tutti i reggimenti delle Forze armate traggono origini, nomi e tradizioni dai reggimenti e dai battaglioni che li hanno preceduti. Le bandiere che vedete schierate nelle cerimonie solo quelle che erano in Russia, in Grecia e ovunque i reparti alpini siano stati inviati. Ma oltre al simbolismo, c’è qualcosa di più profondo che si percepisce avendo a che fare con gli alpini. Ancora oggi, quando si parla di determinazione e volontà di non mollare, i “nostri” alpini citano la difesa sul Don come se fossero loro stessi al fianco di coloro che lì si sacrificarono. È stata metabolizzata un’epopea soprattutto grazie all’Associazione nazionale alpini che svolgono un lavoro prezioso per mantenere viva la fiamma del ricordo e l’alpinità».

In quali scenari sono impegnati oggi gli alpini?

«Attualmente sono impiegati nelle missioni più delicate delle Forze armate. La loro caratteristica di fanteria leggera fa si che siano flessibili nell’impiego e adattabili a ogni evenienza. La cultura alpina, inoltre, consente un approccio con le popolazioni, nelle aree di crisi tipica delle genti e dei reparti italiani, che si potrebbe definire “ispiratrice della dottrina Nato”, cioè un approccio che tiene nella giusta considerazione il rispetto di tradizioni, cultura e religioni delle popolazioni locale, fornendo sicurezza innanzitutto, ma aiutando anche lo sviluppo di piccole e grandi comunità. Insomma, per noi è importantissimo costruire. Direi che è quasi una vocazione».

Manuel Gandin
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