17/09/2011
Una fila di sfollati attende una distribuzione di cibo del Wfp (l'agenzia Onu che si occupa di sicurezza alimentare) a Dolo, in Somalia (Foto AP)
«L’esodo continua. Tutti i giorni. A volte 1.300 persone,
altre 1.500, o ancora di più in certe giornate. Pochi giorni fa ero a Daadab,
in quello che è diventato il campo profughi più grande del mondo. Sono state
ormai superate le 450 mila presenze. L’emergenza rimane acutissima».
Le parole sono di Suzanna Tkalec, volontaria di Crs (la
Caritas statunitense), da qualche tempo incaricata di fare da assistente a
Nairobi di monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico
di Mogadiscio, ma anche presidente di Caritas Somalia. Le Caritas nazionali di
Somalia, Kenya ed Etiopia sono in questa fase il braccio operativo sul territorio
della mobilitazione di quella Italiana e Internationalis, che stanno cercando
di raccogliere la maggior quantità possibile di fondi e di coordinare gli aiuti
per le enormi necessità dei milioni di persone colpite dalla siccità e dalla
carestia.
- Suzanna, come
giudichi la situazione? È ancora fuori controllo?
«Fuori controllo no, ora sono molte le agenzie e gli
organismi dell’umanitario che si sono mobilitati e organizzati. Ma siamo molto,
molto lontani dalla fine dell’emergenza. Questo fiume di gente che continua a
lasciare la Somalia, oggi come un mese fa, arriva in Kenya ed Etiopia in
condizioni estreme, dopo un viaggio di due o tre settimane senza cibo, spesso hanno
ance subito attacchi da animali e predoni. E sappiamo che andrà avanti così
ancora per mesi. Sono immagini terribili, quelle che vediamo. Hai presente il
Biafra, alla fine degli anni Sessanta? Le persone che barcollavano scheletrite?
Oggi, in Corno d’Africa, è la stessa cosa. E poi c’è tanta fame che non si vede».
- Cioè?
«La popolazione dell’Ogaden somalo in Etiopia, o quella di
molte regioni rurali del Kenya, credi che stiano meglio? Le agenzie umanitarie
hanno il problema che la gente fuori dai campi profughi è nelle stesse
identiche situazioni di quella che c’è all’interno. Solo che quella che sta
fuori non è rifugiata, non ha lasciato il proprio Paese, quindi si rischia di
avere una fame di serie A e una di serie B. Si deve pensare anche a tutta
quella popolazione – e sono tanti, parliamo di 4 milioni di kenyani e 4,8
milioni di etiopi – che vive la stessa condizione disperata ma non si vede,
perché non è raggruppata in campi. Stiamo cercando di raggiungere tutta questa
gente attraverso le Caritas nazionali, che hanno volontari in grado di operare
capillarmente sul territorio».
- Il rischio di
epidemie è molto elevato?
«Sì. Persone tanto vulnerabili e indebolite, raggruppate in massa in questi
campi rappresentano un grande rischio per lo sviluppo di epidemie. Occorre
intervenire in fretta sugli aspetti igienico-sanitari, nella costruzione di
latrine, nella strutturazione dei campi profughi in modo tale da evitare che si
sviluppino contagi. Occorre lavorare bene e rapidamente. Ma i mezzi, oggi come
oggi, sono tutt’altro che sufficienti».