L'analisi: tra ius soli e ius sanguinis

21/05/2013

Cittadini per diritto di sangue, cioè per discendenza, o perché si nasce su un territorio? Parte da qui il dibattito sul cosiddetto “ius soli”, latinorum da giuristi improvvisamente calato nei titoli dei giornali. Tutto è iniziato con una dichiarazione di intenti a favore dello ius soli del neoministro dell’integrazione Cecile Kyenge alla trasmissione di RaiTre In ½ ora, a fronte della quale si è scatenata una reazione contraria più o meno scomposta.

Il tema è certamente serio: chiama in causa il Paese che vogliamo diventare, ma, a giudicare dalle modalità, si direbbe che il nostro sia stato finora un dibattito “di scuola”, condotto dando per scontato che le due alternative, sangue e suolo, siano secche, automatiche e prive di possibili correttivi. La realtà invece è un po’ più articolata e complessa.
Ma come funziona davvero oggi in Italia e come potrebbe funzionare, qualora si scegliesse la strada dello ius soli, l’acquisizione della cittadinanza italiana?

Secondo le leggi che disciplinano attualmente la cittadinanza (Legge n.91/92 e Dpr n. 572 del 1993) oggi si è automaticamente italiani se si nasce da un genitore italiano ovunque nel mondo. Oppure se si nasce in Italia da ignoti, da apolidi, o da genitori che provengono da un Paese che non dà la cittadinanza ai figli dei propri cittadini nati all’estero. Tutti gli altri hanno la cittadinanza del Paese d’origine dei genitori.
A meno che non vengano adottati o riconosciuti da un italiano o che non diventi cittadino italiano il genitore con cui convivono. Detto questo la cittadinanza si può acquisire, nei casi previsti per cittadini stranieri di nascita. Hanno i requisiti: il figlio naturale che venga riconosciuto, maggiorenne, dai genitori italiani.
Lo straniero nato in Italia e legalmente residente in Italia fino alla maggiore età. Lo straniero, residente in Italia da almeno due anni al compimento della maggiore età, che abbia un genitore o un nonno che sia stato cittadino italiano per nascita.
E lo straniero che abbia assunto pubblico impiego alle dipendenze dello Stato Italiano e che abbia un nonno o un genitore che sia stato cittadino italiano per nascita. In assenza di “radici” italiane si può venire naturalizzati. Per matrimonio con un italiano/a. Oppure se si è stranieri residenti legalmente in Italia da per periodi di diversa durata secondo i casi: 10 anni se si è extracomunitari, 4 se cittadini dell’Unione europea.

Tutto questo determina dei paradossi. Per esempio: fa meno fatica a diventare cittadino italiano un adulto che abbia sempre vissuto altrove, senza legami effettivi con il territorio italiano, se ha un nonno che sia stato cittadino italiano per nascita (il caso dei calciatori cosiddetti oriundi), rispetto a un ragazzo nato in Italia da genitori stranieri, che abbia sempre vissuto qui e non sappia nulla del suo Paese d’origine. Se al primo bastano tre anni di residenza legale in Italia, il secondo deve aspettare la maggiore età. E allora “ius soli”? Se, come si è visto l’automatismo delle ius sanguinis determina dei paradossi anche lo ius soli se applicato in automatico potrebbe determinarne.

Come osserva il Presidente del Senato Pietro Grasso, forte della sua esperienza di ex magistrato, se bastasse nascere in Italia per essere considerati italiani, senza altri correttivi, il Paese divenendo di fatto appetibile per le madri straniere in attesa, potrebbe diventarlo “sinistramente” anche per i criminali che traggono illeciti guadagni dalla tratta di esseri umani.
Altrettanto, nel rendere cittadini neonati che potrebbero rimanere in Italia il tempo necessario a nascerne cittadini per poi essere ritrasferiti altrove, lo ius soli da solo non risolverebbe il problema dei figli di stranieri arrivati in Italia piccolissimi e cresciuti qui: non essendo nati in Italia, pur parlando italiano e avendo frequentato le nostre scuole, magari fin dalla prima infanzia, resterebbero stranieri.
Anche per questo – e così si fa in molti Paesi – avanzano le proposte di cosiddetto ius soli “temperato”, in cui si svincoli il legame automatico dalla cittadinanza dei genitori per individuare al suo posto un insieme di regole che facilitino il riconoscimento “dell’italianità” del bambino nato o cresciuto in Italia, magari legandolo alla frequenza della scuola. Un concetto che Andrea Riccardi ha definito “ius culturae”, perché è la cultura che forma, anche più della nascita, l’identità e l’appartenenza. Ovviamente la mediazione non cancellerà, com’è giusto che sia, il dibattito, semplicemente lo sposterà sulle regole di “temperamento”, che alcuni vorranno più restrittive altri meno.


Elisa Chiari

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