Quirinale, per molti un incubo

16/04/2013
Quirinale, sede del presidente della Repubblica.
Quirinale, sede del presidente della Repubblica.

Vengo anch’io? No, tu no. È una delle regole ferree dell’elezione al Quirinale. Perché nominare il presidente della Repubblica nel Paese di Machiavelli è come giocare a ciapanò. Si entra presidente e si esce bastonati. Il re è nudo, soprattutto se non diventa re. Così, il ruolo col minore potere reale finisce per essere tanto ambìto quanto sorprendente. Non a caso, i grandi leader della prima Repubblica hanno cozzato sempre contro il muro dell’elezione.
Alcide De Gasperi
, tanto per dire, rifiutava la proposta: «Al Quirinale mi sentirei morto». Lapidario e definitivo. E anche gli altri cavalli di razza in casa Dc hanno rinunciato, magari a causa di sonore batoste. Da Moro ad Andreotti a Fanfani, niet, niente da fare. Perché, voto segreto regnante, quando si tratta di eleggere il presidente della Repubblica emergono i peones, che vendicano il loro ruolo gregario con operazioni di killeraggio scientifico e cinico.
Che le cose siano sempre andate così, lo dimostrano anche gli altri partiti: nel Psi, per esempio, Pietro Nenni avrebbe fatto volentieri il capo dello Stato, ma fu trombato e sacrificato più volte in nome di altri giochi, segreti o meno. E che dire di La Malfa, Spadolini, Malagodi, Terracini, Amendola? Zero tituli, direbbe qualcuno. Così, alla fine, il presidente viene eletto sulla base di un continuo spariglio bizantino fatto di accordi sottobanco, complotti notturni, vendette personali, miracolose alleanze di un giorno che, per chi vince, dura sette anni.
Solo due volte, con Francesco Cossiga e Carlo Azeglio Ciampi, si è scelto l’uomo direttamente al primo scrutinio.

Emma Bonino.
Emma Bonino.

Uomo o donne, questo o quella pari non sono

L’uomo, appunto. Quanto alle donne, battute in partenza icone del Parlamento come Nilde Iotti e Tina Anselmi, sprecate figure di rilievo ma senza forze come Camilla Cederna o Rosa Russo Iervolino, la sola Emma Bonino, nel 1999, mostrando le proprie attitudini al gioco diretto, si autocandidò con tanto di firme da parte di sostenitori (per lo più radicali, certo) sparsi per il Paese.
Beh, venne scartata in modo solenne quanto un’elezione. Da allora, il suo nome si aggira come un fantasma nei corridoi del Parlamento, neanche fosse l’unica rappresentante di genere femminile su cui puntare occhi presidenziali. Pigrizia maschile? Conformismo? Scarsa fantasia? Chissà.

Però Bonino continua a piacere a molti, tanto da far sorgere il sospetto di una palese candidatura a perdere per arrivare alla fatidica quarta votazione, a partire dalla quale non sono più necessari i due terzi dei voti ma basta la maggioranza semplice per poter pomposamente dire: tu, proprio tu, sarai presidente. No, non tu Emma, lo sai... E, sempre a conferma del Paese più simpaticamente folle del mondo, va rammentato che il primo presidente della Repubblica, dopo 84 anni di Regno, fu l’avvocato napoletano Enrico De Nicola, nientemeno che un convinto monarchico.
Il quale non solo rimase al Colle per il periodo “provvisorio”, dal 28 giugno 1946 al 31 dicembre 1947, ma appose la firma sulla nuova Carta costituzionale, impiegando otto minuti, così dicono i cronisti dell’epoca, e divenne ufficialmente primo presidente della Repubblica per qualche mese, dal 1° gennaio all’11 maggio 1948.

Carlo Sforza.
Carlo Sforza.

Carlo Sforza, il conte repubblicano

Ma perché i nostri parlamentari scelsero un monarchico per guidare la Repubblica? Perché, disse Giulio Andreotti, era «al di sopra del bene e del male». Più prosaicamente, molti candidarono Benedetto Croce. Anche le sinistre. Ma il filosofo capì l’antifona e dichiarò che non era d’accordo sulla sua candidatura perché proveniente da socialisti e comunisti. Così, i voti andarono all’avvocato monarchico.
Che non era proprio felice, a dire il vero, ma poi visse il periodo presidenziale con senso di responsabilità tale da rivoltare il cappotto consunto di fronte a ospiti di riguardo, con orgoglio di quella povertà italiana postbellica. Non volle mai lo stipendio dallo Stato, e pagava di tasca sua anche le telefonate che faceva.

L’avvocato detiene un record imbattibile: è stato il primo presidente e anche il primo trombato. 1948: De Nicola spera invano in una rielezione. Ma i partiti confabulano, tramano, si accordano su altri nomi. A riprova del pateracchio passeggero tra monarchia e repubblica, a De Nicola deve succedere, secondo gli intenti politici, addirittura un conte, Carlo Sforza, già ministro degli Esteri nel terzo governo di De Gasperi. Oltreché conte, Sforza è un tecnico (c’erano già allora) e, a complicarsi la vita, di area… repubblicana. Insomma: quando i parlamentari lo incontrano, si scappellano, caro conte di qua, esimio conte di là, promettendogli il voto.
Salvo, poi, ripensarci, complici alcune voci messe in giro a bella posta che dipingono il candidato repubblicano alla stregua di un assatanato Don Giovanni. Altri tempi, vero?

E, comunque, la giovanissima Italia repubblicana fatica a liberarsi dei suoi trascorsi monarchici. Fallita la candidatura di Sforza, ci si muove verso un economista liberale, Luigi Einaudi che, quando lo sa - ma guarda un po’ - risponde: «Veramente io al referendum ho votato monarchia». E che sarà mai, pensano De Gasperi e gli altri democristiani, che si danno da fare e riescono a far eleggere Einaudi con 518 voti su 451 necessari. L’economista piemontese entrò per la prima volta al Quirinale con la sua auto privata, come il predecessore. E quando invitava qualcuno a pranzo, tagliando mezza pera o mezza mela, offriva l’altra metà all’ospite, per non sprecare e buttare ciò che altrimenti sarebbe avanzato.

Cesare Merzagora.
Cesare Merzagora.

Il Colle non s'addice a Cesare

Nel 1955, per il nuovo settennato, il trombato eccellente è Cesare Merzagora, presidente del Senato dal 1953. Vi sarebbe rimasto come seconda carica dello Stato addirittura fino al 1967, quasi a ripagarlo della tremenda delusione, avvenuta per mano - e come ti sbagli? - dei suoi amici democristiani.
Il fatto è che l’elezione del Capo dello Stato è sempre vissuta come un crocevia di aspirazioni e rivendicazioni programmatiche di tutti, nessuno escluso. Per farla breve: mentre Einaudi spera in una rielezione, Merzagora viene candidato pubblicamente, un errore gravissimo, e cade nel tranello. La carica lo attira, e ragionando in modo lineare pensa che se i colleghi di partito hanno parlato apertamente di lui, problemi con ce ne saranno. Invece, va tutto a rovescio: la Dc si spezza in più tronconi: chi per Merzagora, chi per la rielezione di Einaudi, chi pilatescamente votando scheda bianca.

Mentre le sinistre votano compatte per Ferruccio Parri, qualche peone Dc sceglie Giovanni Gronchi. Impallinato Merzagora, proprio il nome di Gronchi diviene, dopo altri giochi al massacro, vincente, e per la terza volta il presidente della repubblica non è il candidato ufficiale della Dc.
Non sarà un settennato tranquillo, anche perché Gronchi lo interpreta in modo nuovo rispetto alla neutralità burocratica di De Nicola e alla preoccupata sobrietà istituzionale di Einaudi. Gronchi vuole essere protagonista attivo della vita politica: la diffidenza nei riguardi della seconda carica dello Stato, quel Merzagora che non aveva perdonato lo sgarbo elettorale, sfocia, così, in ostilità aperta. In quegli anni che vedono l’apertura ai socialisti e la nascita dei governi di centrosinistra, Gronchi parteggia per l’ingresso di Nenni e dei socialisti nella “stanza dei bottoni”, mentre Merzagora è nettamente contrario.

Tanto contrario che nel 1960, in un discorso tenuto dopo la caduta del governo di Mario Segni, accusa la corruzione dilagante, i partiti, gli affarismi politici, la decadenza dei costumi etici, insomma, di tutto e di più e ogni partito capisce che Merzagora parla a nuora (loro) affinché suocera (Gronchi) capisca. L’accusa è al presidente. Il quale, peraltro, non fa nulla per proteggersi anzi, va incontro a gaffe clamorose, ed è anche parecchio sfortunato quando cade dalla sedia del palco reale della Scala di Milano, avendo al fianco il presidente francese Charles De Gaulle. Dietro di lui cascante… sì, esatto, c’è proprio Merzagora.

A rialzarlo da terra, invece, provvede Giovanni Leone, segno inequivocabile di patrii destini che bussano alla porta. La televisione, che afferra già i politici per la collottola dell’ironia e della satira, tenta di nascondere l’inciampo. Di quella caduta non si deve sapere nulla. E nulla si sa… ma solo per poco. Infatti, sul piccolo schermo l’Italia vede Ugo Tognazzi cadere da una sedia e Raimondo Vianello rimproverarlo: «Ma chi credi di essere?» Apriti cielo: cadono anche i due comici, espulsi da una Tv che non capisce che con quella cacciata tutt’Italia viene a conoscenza di ciò che la televisione non voleva far vedere.

Umberto Terracini.
Umberto Terracini.

Terracini il Costituente, eterno battuto

Dopo Gronchi, viene il turno di Antonio Segni, potentissimo notabile sardo, il primo dei sassaresi al Colle. Tanto potente da battere al nono scrutinio il candidato appoggiato dai socialisti, quel Giuseppe Saragat che non avrebbe comunque aspettato molto a insediarsi al Quirinale.
Segni è in testa dal primo scrutinio, quando l’area di sinistra mette in campo ben tre nomi: Umberto Terracini, Sandro Pertini e Saragat. Pertini lascia subito, poi tocca a Terracini mollare mentre il leader socialdemocratico resiste fino all’ultimo, invano.
Ma saranno solo due gli anni di presidenza di Segni, turbolenti come mai prima. L’avvento del centrosinistra, il “tintinnar di sciabole”, la paura di un golpe istituzionale forse voluto proprio da Segni, un litigio furente con Saragat e con Aldo Moro, che lo aveva voluto lì, sul Colle, l’ictus. Se Gronchi aveva fatto mettere microfoni in ogni stanza perché nessuno potesse rimangiarsi le parole dette al presidente, su quel litigio a tre ancora oggi vige il silenzio più assoluto.

C’è stato ma non ne conosciamo i contenuti, se non in forma vaga. Fatto sta che Segni lascia la carica per malattia e al suo posto viene eletto proprio l’avversario di due anni prima, Giuseppe Saragat, dopo 21 scrutini che vedranno cavalli perdenti nei nomi del solito Terracini, ma anche di Nenni, Leone, Fanfani e persino Augusto De Marsanich, mandato al macello dai suoi camerati missini.
Saragat finalmente ce la fa e, oltre che per i telegrammi di congratulazione mandati un po’ a tutti nei suoi sette anni, resta nel ricordo anche perché terminava i discorsi di fine anno con tono enfatico e cadenza piemontese, quasi urlando: «Viva la Repubblica, viva l’Italia».
Il grande trombato di turno è un altro avvocato napoletano, come De Nicola: Giovanni Leone, che aveva rialzato Gronchi da terra pochi anni prima. La Dc non vuole cedere lo “scettro” presidenziale che deteneva con Segni ma a sinistra si pensa in maniera diametralmente opposta. I capi Dc capiscono che chi è candidato rischia una figuraccia, così si defilano lanciando, si fa per dire, Leone al suo destino segnato. Vai avanti tu che a noi viene da ridere, insomma.

Pietro Nenni e Francesco De Martino.
Pietro Nenni e Francesco De Martino.

Era un Leone, ma anche un agnello sacrificale

Leone resiste pervicacemente in testa per ben 15 dei 21 scrutini ma la sinistra non ci pensa a lasciare la sedia a un altro Dc, dopo la triste esperienza di Segni.
Tanto tuonò che piovve. Al 21° scrutinio, finalmente, dopo estenuanti turni anche nei giorni di Natale e Santo Stefano, il 28 dicembre 1964 Saragat viene eletto presidente. Leone, agnello sacrificale di una battaglia persa in partenza, s’era ritirato dopo il 18° tentativo, lasciando le ultime brutte figure a un socialista, Pietro Nenni, che fa da apripista a Saragat, pur sognando un ribaltone improvviso a suo favore.
Quanto al presidente del Senato, sì, proprio lui, Cesare Merzagora, sospira al ricordo di pochi giorni prima, quando si era ritrovato a fare il presidente supplente per quattro mesi, a causa della malattia di Segni.

Amintore Fanfani.
Amintore Fanfani.

Fanfani e il poeta del seggio

Finito il settennato di Saragat, la Dc batte cassa: ora tocca a noi. Ma è lunga la via per riuscire a tornare al Colle: dal 9 al 24 dicembre 1971, per 23 inutili e defatiganti scrutini. Il fatto è che i socialisti tornano alla carica, stavolta con Francesco De Martino e, tanto per caricare un altro asso di bastoni, lo stesso Saragat mostra di aver gradito il ruolo e di accettare un eventuale reincarico. Avversario di De Martino, il fumantino e ambiziosissimo Amintore Fanfani, così che in poche ore gira la battuta più scontata nei corridoi dove la politica si fa davvero: «Dopo la bottiglia, il tappo», riferendosi a una certa predisposizione saragattiana per il buon vino e all’altezza del politico aretino, non certo paragonabile a quella dei corazzieri che attendono al Quirinale. Se le danno di santa ragione, De Martino e Fanfani, ma del quorum non v’è traccia.

Il meglio arriva al sesto scrutinio: Fanfani, presidente del Senato, siede al fianco del presidente della Camera, Sandro Pertini, e per prassi deve leggere ogni voto prima di passare la scheda al burbero ex capo partigiano. Così, il povero Amintore ha la disavventura di leggere uno di quei voti, un poetico endecasillabo tutto per lui: “Nano maledetto, non sarai mai eletto”. Pertini prontamente annulla la scheda e pur se non si saprà mai il nome del Grande elettore poeta, lo sguardo di tutti va verso i banchi del centro, della Dc, appunto. Fanfani, mestamente, si ritira.
Con lui, tutto il partito, che torna alla carica, ancora con lui, all’11° scrutinio, tanto per vedere che aria tira. Pessima: nuovo ritiro della Dc.
De Martino fa un’infornata di voti inutili fino al 16° scrutinio quando, nonostante gli ordini di scuderia scudocrociata siano per l’astensione, riappare il buon Amintore con 6 voti, dati da chi evidentemente comincia ad annoiarsi. Solo al 22° turno la Dc propone il nome giusto: quello di Leone, il trombato della volta precedente. E siccome Natale s’avvicina e i grandi elettori tutto vorrebbero meno che mangiare il panettone a Montecitorio, l’accordo si trova in un baleno.
Il 23 dicembre, per soli due voti, Leone non è eletto, mentre il Psi abbandona lo sconsolato De Martino per Nenni. Il giorno dopo, neanche Nenni riesce a fermare l’avvocato che ce la fa, anche se per soli 13 voti, raggiungendo il 52% di preferenze.

Giorgio Amendola.
Giorgio Amendola.

I tanti nomi bruciati da Pertini

Sul settennato di Leone si è detto di tutto e anche di più, dalla bellezza della moglie ai capricci dei figli, passando per le foto del presidente che fa napoletanissime corna agli studenti che lo contestano.
Un presunto scandalo oggi, uno finto domani, alla fine prevale quello degli aerei Lockeed, che portano Leone addirittura a interrompere prima della fine il suo mandato con dimissioni anticipate.
Solo dopo anni si scoprirà la verità: Leone era innocente. Ma la campagna stampa ha avuto il suo effetto. Per la nuova presidenza, la Dc presenta un vecchio leader come Guido Gonella, mentre il Pci sceglie Giorgio Amendola. Il sogno segreto è quello del Psi, dove Bettino Craxi ha preso il bastone del comando da un paio d’anni e propone per il Quirinale Antonio Giolitti, poi Giulano Vassalli, infine l’anziano Pietro Nenni.
Gonella lascia dopo pochi scrutini e la battaglia a sinistra è campale: il Pci non molla Amendola che (lo sanno tutti) non raggiungerà mai il quorum. E allora? Allora è il Psi che deve cambiare nome, se vuole un socialista al Quirinale.
Quindici scrutini inutili e poi il boom. Con una percentuale da record, l’83%, viene eletto Sandro Pertini, a dispetto di Craxi, Nenni e anche di Amendola, sacrificato dal Pci per fare un bel dispetto a Bettino. E, se è vero che anche Pertini qualche scherzetto glielo fece (come quello di fermare tutti gli ascensori quando arrivava Craxi al Colle, per vederlo sbuffare sulle scale, ma chissà che non sia solo leggenda…), quella di Pertini resta una delle scelte più apprezzate dagli italiani.
Dopo Pertini si pensa a un presidente meno protagonista, meno istintivo, meno esuberante, più riflessivo. Su queste solide basi si elegge, prima volta nella storia, al primo scrutinio Francesco Cossiga, altro sassarese nella storia del Colle repubblicano.
Lui fa il bravo finché può poi, negli ultimi anni, si scatena. E parla, parla, parla senza tregua. Vengono giù segreti mai completamente tali misti a notizie assolutamente nascoste fino ad allora. Il picconatore, così lo chiamano, finisce il settennato divertendosi alquanto nel ruolo di “pazzerello”.
In realtà intuisce che la fine della prima Repubblica è lì, davanti ai suoi occhi, e allora dai, vai giù di piccone...

Arnaldo Forlani.
Arnaldo Forlani.

Forlani nel tritacarne

Quando, finalmente, si passa a un altro presidente, la lotta tra Dc e Pci ricomincia. Di qua Arnaldo Forlani, di là una donna, Nilde Iotti. Se Iotti è come Terracini o Amendola, una candidatura senza possibilità reale, quella di Forlani dovrebbe essere la carta vincente non solo dei democristiani, ma anche dei socialisti.
Il Caf (Craxi, Andreotti, Forlani) tenta di mettere le mani anche sulla presidenza della Repubblica ma al solito, tra oppositori e peones, comunisti e voti allo sbaraglio, anche Forlani finisce nel tritacarne elettorale.
Il momento è drammatico: la morte del giudice Giovanni Falcone per mano della mafia impone velocemente una scelta. Che cade su un vecchio democristiano che piace anche a sinistra, nonostante sia stato uno dei più duri e puri anticomunisti del passato: Oscar Luigi Scalfaro.

Con lui finisce la prima Repubblica, finisce il Caf, e appare sulla scena anzi, scende in campo, quel Silvio Berlusconi che guarda al Quirinale come a un fastidio da un lato, ma che mira proprio lì, anche per risolvere questioni personali che lo fanno dormire poco. L’annoso duello tra Scalfaro e Berlusconi è una guerra senza quartiere, col vecchio padre costituente che diventa un piccolo mito vivente anche per la sinistra e con la destra che accusa il presidente di non essere super partes.

Massimo d'Alema.
Massimo d'Alema.

Gli ultimi bocciati

Il resto è passato recente. Dopo Scalfaro, tocca a Carlo Azeglio Ciampi, come Cossiga subito presidente al primo colpo.
E poi a Giorgio Napolitano, dopo che nei primi tre scrutini si abbattono da soli o quasi, Gianni Letta, Umberto Bossi e Massimo D’Alema. Costui è l’ultimo trombato cronologicamente parlando, ma qualcuno ha provveduto a ricordargli che spesso i caduti di un’elezione si sono presi la rivincita più tardi.
Immaginiamo uno stentato tentativo di sorriso sotto i baffini di D’Alema. Ma, ciò che più importa è capire chi sarà il trombato eccellente di questa volta, che potrebbe essere anche l’ultima della seconda Repubblica.
Avanti il prossimo, fate il vostro gioco…

                                                                           Manuel Gandin

a cura di Francesco Anfossi e Fulvio Scaglione
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