Pittin, la neve è ancora nostra

L'elemento naturale scarseggia e lo sport della neve si fa estremo: lo sci di fondo sbarca in centro a Milano e Alessandro Pittin costringe l'Italia a occuparsi di combinata nordica.

Quel giorno a casa Pittin

15/01/2012
Alessandro Pittin (foto Reuters/Robert Pratta).
Alessandro Pittin (foto Reuters/Robert Pratta).

     Mancavano poche settimane ai Giochi di Vancouver, per gli italiani la combinata nordica era fenomeno esotico, un terreno irrimediabilmente altrui, quasi impossibile da espugnare. In quei giorni andammo a trovare, a Cercivento, in Carnia, dove vive, un ragazzino di belle speranze che si raccontò così.



     I friulani sono tartarughe di terra, si portano le radici ovunque vadano nel mondo e se il terremoto rompe il guscio, lo ricostruiscono pezzo per pezzo, mettendo i numeri sui tasselli e segnando con una riga rosso mattone l’originale dal nuovo, perché nessuno perda memoria di quello che è stato. Una forma di correttezza, anche, un modo di chiamare il nuovo con il suo nome, perché nessuno possa dire che è taroccato. Per dirla con una parola difficile: un sentimento filologico nel rifare.


     Alessandro Pittin, combinatista nordico ai piedi delle Alpi, ha lo sguardo terso come il cielo della Carnia d’inverno e un legame stretto con il guscio. Perché se non fosse cresciuto a Cercivento, a due passi da dove un maestro ha ripristinato un piccolo trampolino quando lui aveva sette anni, mai gli sarebbe venuto in mente di saltare con gli sci. Se non fosse diventato grande lì, quattro case di pietra e tre orti, a 67 chilometri da Udine, una ventina dal confine con l’Austria, non avrebbe continuato a saltare, perché non avrebbe avuto vicino un trampolino grande, oltreconfine. Di trampolini in Italia ce ne sono due: uno a Predazzo in Val di Fiemme, l’altro a Pragelato, targato Torino 2006, ma costa troppo farlo funzionare.


     Alessandro non sarebbe diventato combinatista nordico se non avesse avuto un fratello grande che sciava a fondovalle e tanta neve attorno. «Da piçul al saltava su la nêf come i saùps», racconta sua nonna, «da piccolo saltava sulla neve come le cavallette e giocava con assi di legno improvvisando sci rudimentali». Ma non tutti i bambini con le cavallette nel cuore hanno la possibilità di lasciarle sfogare sulla neve così. La terra conta eccome, la terra è dentro.


     In una disciplina che abbina la resistenza dello sci di fondo al vuoto nella pancia del salto dal trampolino, però, bisogna un po’ rubare il mestiere altrove: alla tradizione dei nordici veri, scandinavi e finnici, e ancor di più a tedeschi e austriaci. Eppure Alessandro, che quando si accenderà la fiaccola di Vancouver 2010 avrà vent’anni da poche ore, doveva avere una traccia di destino scritta nei cerchi olimpici: «Sono stato a Torino 2006, strappando la qualificazione all’ultimo giorno. Ma a 16 anni appena compiuti non ero pronto: ero troppo frastornato per una cosa tanto più grande di me. Non ero ancora nemmeno junior. A Vancouver sarà diverso: ho fatto tanta esperienza in questi quattro anni». Un titolo mondiale juniores, due podi di Coppa del mondo in combinata, dopo 12 anni che non succedeva a un italiano.


     «Ma siamo una squadra giovane», racconta con la saggezza di chi deve mettersi i sassi in tasca per convincersi a tenere i piedi per terra, «so che dobbiamo ancora crescere, anche come gruppo, consapevoli che il tempo della maturità verrà soltanto per Soci 2014: lavoreremo duro».


     Intanto ci si allena: fondo, bicicletta, corsa per fare fiato, esercizi a secco e salti per dare ali al volo. Che cosa si prova dal trampolino? «Brivido soltanto ai primi salti, quando si passa da un trampolino piccolo a uno grande». Il percorso del saltatore in erba è un baratro graduale: «Da piccoli si comincia a secco, dall’atterraggio, per capire come si fa. Poi si va su per gradi: trampolini piccoli, poi sempre più alti».


     L’ultimo, quello olimpico, è una rampa di lancio di parecchi metri, per galleggiare in aria 130 metri e oltre: «Il mio record è 135. In volo si resta due o tre secondi ma sembrano di più ed è la cosa più bella, la sensazione del volo con gli sci da salto lunghi e leggeri con cui stallare usandoli come ali. La fase più difficile è la spinta: hai poche frazioni di secondo per decidere; l’arrivo, una volta capito come si fa, è la parte meno complicata, anche se si arriva giù a una discreta velocità». Sarà ma ci vorrebbe il consenso di ginocchia e caviglie, sono loro il carrello che ammortizza l’atterraggio. 


     «All’inizio mi sentivo più fondista, ora sto prendendo confidenza con il salto e il miglioramento dà gusto alle gare: meglio salti, prima parti con gli sci da fondo. Una buona prestazione dal trampolino è essenziale per non accumulare uno svantaggio impossibile da rimontare». Alessandro è leggero ma non filiforme come i saltatori puri: «La leggerezza aiuta, ma c’è chi ha rischiato la salute. Ora le nuove regole costringono i leggerissimi ad accorciare gli sci, così da togliere loro il vantaggio dell’eccessiva magrezza». Nemmeno nel vento le piume anoressiche hanno diritto a supplementi di volo: «Il sistema dei punteggi tiene conto del vento: se è a favore si toglie qualcosa, se è contro si aggiunge».


     Conta planare in bello stile lontano: con gli sci posizionati a "V" in volo e atterraggio in posizione telemark, quasi una genuflessione agli dèi della neve. Ma per vincere in combinata bisogna volare anche nel fondo. Servono energie. Per questo si può, almeno ogni tanto, far onore alla tavola di una nonna friulana che raccoglie ritagli di giornale come reliquie: ogni riga un briciolo di fama di cui andar fieri. Anche se Alessandro quando li vede si ritira timidamente nel guscio. È probabile che là dentro sogni. Ma è meglio non dirlo, prima che tutto evapori appena metti fuori la testa. 

Elisa Chiari


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