21/02/2013
Benedetto XVI durante un'udienza (Ansa).
Non fu solo Celestino V a rinunciare
al papato, dopo appena pochi mesi
di pontificato, dal 5 luglio al 13 dicembre
1294. Altri, per ragioni diverse,
fecero lo stesso gesto. Ma nella memoria
collettiva è rimasto solo il ricordo di Pietro
da Morrone, il monaco proclamato santo: forse
anche per le poche parole molto critiche
che gli ha dedicato Dante. Ma pare del tutto
fuori luogo fare dei confronti con le dimissioni
appena offerte da Benedetto XVI: è troppa
la differenza del contesto storico e soprattutto
della situazione della Chiesa cattolica.
Dopo
quanto è stato scritto in ogni parte del
mondo, diventa difficile provare a offrire
qualche riflessione sull’evento: ma forse ne
vale la pena.
Le premesse di quel gesto si possono porre
nella decisione di Giovanni XXIII di recuperare
il suo ruolo di vescovo di Roma, un
ruolo che sarebbe poi stato rivitalizzato dai
suoi successori. Come si sa, il Papa è tale anche
e soprattutto in quanto vescovo di Roma:
ma da secoli ormai si era persa l’abitudine
di considerare questo aspetto, vedendolo
soprattutto come capo della cattolicità,
centro di potere, persona sacra in quanto vicario
di Cristo.
Il recupero di quel ruolo avrebbe avuto diverse
conseguenze, non ultima, il fatto che bisognava
spostare l’attenzione dalla sua persona
al suo ruolo, che possiamo in fondo ritrovare
già nelle prime comunità cristiane: il
vescovo è prima di tutto il pastore di una porzione
di popolo e di una Chiesa. Deve cioè
svolgere un compito determinato.
Come stupirsi
se a un certo punto quel vescovo prende
atto di non essere più in grado di svolgere
quel ruolo, e lascia la direzione di quella
Chiesa a un altro? L’attenzione, quindi, si
sposta dalla sacralità della persona al ruolo
che deve svolgere.
Paiono allora fuori luogo tutti i dibattiti
sulla opportunità o meno di “scendere dalla
Croce”. Ogni Papa ha il diritto di fare la scelta
che ritiene migliore, non in vista di una
più o meno importante affermazione della
sua persona, ma in vista del compito che deve
svolgere, che è quello di essere pastore di
un popolo. Così come sembra fuori luogo di-re che il Papa doveva affidarsi alla Provvidenza.
Proprio una delle sue ultime omelie a inizio
Quaresima ci ricorda il «non tentare il Signore
Dio tuo». Dio non si sostituisce alle persone,
le lascia nelle loro debolezze. Il Papa
non è Gesù Cristo, che non è sceso dalla croce,
è colui che ci indica la via che ci porta a
Gesù. Se non si sente più in grado, è così illogico
che lasci il posto a un altro?
Sacerdoti in Piazza San Pietro (Ansa).
Vi è un altro elemento che sembra si possa
desumere da tale scelta. Nonostante tutte le
frasi che si possono dire, e sono dette nella
Chiesa, sul fatto che chi sale in grado non fa
carriera, ma compie un altro compito, la maggioranza
anche dei credenti continua a pensare
non in termine di servizio, ma appunto
in termine di carriera.
La domanda che molti si pongono sul cosa
farà Benedetto XVI dopo il 28 febbraio è significativa.
Ha raggiunto un alto grado di carriera,
che posto dargli adesso?
In fondo, stiamo ragionando con la stessa
mentalità mondana: quando qualcuno lascia
una carica, bisogna sempre dargli un’altra carica
che non lo degradi.
Ed è proprio a tale cultura che si rivolge la
parola di Gesù, quando dice «Ma fra voi non
sia così» (Mt 20, 26).
Da notare che, in fondo,
è lo stesso problema che si pongono molte
diocesi, quando un vescovo lascia il suo posto
per raggiunti limiti di età, e ne viene inviato
un altro.
Ora, non si vede perché si dia per scontato
che questo possa avvenire in tutte le diocesi,
meno che in quella romana: sempre se
si pensa che il Papa è anche vescovo di Roma.
Logicamente questo ha una conseguenza:
mette in causa il concetto di carriera, contro
il quale tra l’altro proprio Benedetto XVI
ha combattuto tutta la vita.
Che cosa farà il Papa dopo, come lo chiameremo,
come si vestirà? Anche tali domande
hanno senso in un contesto totalmente
mondano, ma si preferirebbe che
non venissero troppo avanzate dalla stampa
cattolica, dalla quale ci si attende un atteggiamento
diverso.
Qui possiamo riprendere
il riferimento a Celestino V, pur sapendolo
storicamente improponibile. La sua rinuncia
procurò sollievo in alcuni, e rimpianti
in altri: avevano sperato che fosse in
grado di riformare la Curia. È il rimpianto
che ha espresso Benedetto XVI, in prima
persona: di non essere riuscito a portare a
termine il suo sogno di una riforma profonda
e significativa.
Poi, si dice che Celestino V, deposti gli abiti
pontifici, riprese il suo semplice abito di
monaco: e ridivenne quello che era sempre
stato, ma questo lo dice lo scrittore Ignazio Silone
in L’avventura di un povero cristiano.
Non pare segno di scarsa riverenza, ma di
profonda stima per la persona, immaginare
che l’umiltà di questo grande Papa lo porterà
a fare la stessa cosa: riprenderà i suoi abiti
di prete e di vescovo, e ci insegnerà con
l’esempio a vivere da cristiani.
Questo servizio fa parte di un ampio speciale dedicato a Benedetto XVI e alla sua scelta, contenuto nel numero di Famiglia Cristiana ora in edicola e in parrocchia.
Maurilio Guasco, storico della Chiesa