di Suor Eugenia Bonetti
Missionaria della Consolata, è stata per 24 anni in Kenya. Dal 2000 è responsabile dell'Ufficio tratta dell'Unione superiori maggiori italiane (Usmi). Coordina una rete di 250 suore di 70 diverse congregazioni, che operano in più di cento case di accoglienza. Il presidente Ciampi l'ha nominata Commendatore della Repubblica italiana.
14 giu
Giovedì sera, 13 giugno, ho partecipando a un incontro all’università Gregoriana, organizzato dal Centro Astalli. All’incontro era presente anche la neo ministro dell’Integrazione, Cecile Kyenge, prima donna di origine africana nel governo italiano.
Don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana che moderava l’incontro, rivolgendosi alla Ministro prima dell’introduzione, le presentava le sue scuse e la sua solidarietà per i numerosi commenti denigratori subiti dall’inizio della sua nomina.
Ciò che mi ha maggiormente sconcertata e assai indignata è stato l’ultimo affronto, a dir poco volgare, violento, scandaloso ed esecrabile, per non dire diabolico, rivolto alla ministro da un’altra donna, pure lei impegnata in politica, Dolores Valandro, consigliera della Lega in una circoscrizione di Padova. Parlando della Kyenge si è permessa un’espressione a dir poco vergognosa e aberrante: «Ma mai nessuno che la stupri?!».
Durante l’incontro alla Gregoriana, la ministro ha semplicemente detto, con discrezione e pacatezza, da vera donna con animo e linguaggio nobile e senza retorica, che non intende rispondere a queste affermazioni, giacché per tutta la vita si è battuta per contrastare ed eliminare la violenza in tutte le sue forme, fisica ma anche verbale, che può ferire le persone, specialmente quando toglie loro fiducia, buon nome e reputazione.
Interpretando il sentire di tante donne, per di più religiose, che da anni si prodigano per ridare dignità, identità e libertà ad altre donne, desidero rivolgermi in modo particolare e direttamente alla signora Dolores Valandro e a quanti possono approvare la sua posizione o la pensano come lei. In Italia ci sono migliaia di donne africane che ogni notte subiscono veri e propri stupri a pagamento da parte di moltissimi uomini italiani, “clienti” incuranti di ciò che può sentire e vivere una donna vittima di tratta e costretta allo sfruttamento sessuale.
Perché non parliamo mai di questa triste e vergognosa realtà? Si rende conto la signora Valandro e moltissimi altri sedicenti benpensanti di cosa significa subire violenza ogni notte, e ripetutamente?
Perché le nostre istituzioni non prendono provvedimenti seri ed efficaci per lottare contro questa terribile piaga del nostro secolo? Una vera e propria schiavitù, non mi stancherò mai di ripeterlo, che riguarda migliaia di giovani donne, in gran parte immigrate, che subiscono abusi e violenze senza mai fare notizia.
Forse le donne straniere sono considerate di “seconda categoria” anche dai nostri media? Se poi sono costrette alla prostituzione, allora vediamo in loro una mera merce usa e getta? Magari qualcuno penserà pure che se la sono cercata…. Che dire, poi, delle dieci giovani donne nigeriane uccise lo scorso anno sulle nostre strade e di cui nessuno parla, perché non interessano, non fanno notizia, non si trovano i colpevoli e le loro famiglie non potranno mai avere un risarcimento?
Ormai il tema del “femminicidio” è diventato notizia quasi giornaliera nei nostri media. Questa violenza che si scatena contro le donne è diventata un indice inconfutabile del grave declino culturale e valoriale che attanaglia il nostro Paese e che dobbiamo contrastare, recuperando relazioni vere e cariche di senso tra uomo donna, basate sul rispetto reciproco e non sulla convenienza o gli interessi personali.
Ben vengano allora nuove proposte che ci aiutino a creare una comunità più rispettosa e solidale, multietnica e multiculturale, fondate sull’accoglienza, l’integrazione, il rispetto e la valorizzazione della ricchezza e della bellezza di ciascuno. Qualunque sia la sua provenienza.
Pubblicato il 14 giugno 2013 - Commenti (0)
27 mag
Papa Francesco, nel suo
primo messaggio in occasione della Pasqua, con forza, per ben due volte, aveva
sottolineato: l’egoismo che continua la
tratta delle persone è la schiavitù più estesa in questo ventunesimo secolo!
Le sue parole avevano dato forza e coraggio a quanti quotidianamente operano per
bloccare questa forma di schiavitù.
Un secondo appello, il Papa lo aveva lanciato
il primo Maggio quando, rivolgendosi ai lavoratori, oltre ad affermare che il
lavoro non deve schiavizzare, ma dare dignità alla persona, aggiungeva: Chiedo ai
fratelli e sorelle nella fede e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà
una decisa scelta contro la
tratta delle persone. Il Papa si
rivolgeva, in modo particolare, ai fratelli
e sorelle nella fede, senza però escludere altre persone e organismi perché
combattano questa schiavitù spezzando tutti gli anelli delle loro catene. Ma
queste “catene” si spezzeranno solo se sapremo lavorare insieme: istituzioni
governative e religiose, enti locali e volontariato.
I trafficanti di esseri umani sono organizzatissimi per
non perdere la loro preda e i loro ingenti guadagni e noi, che operiamo in
questo settore, dovremo esserlo altrettanto organizzati e motivati lavorando in
comunione e non in competizione. In Italia, nell’anno del Grande Giubileo le
Religiose hanno iniziato a intessere una rete, ora formata da 250 Religiose di
diverse Congregazioni, che operano sulle strade, nei centri ascolto, nei CIE
(Centri di identificazione ed espulsione), ma soprattutto in un centinaio di
case famiglia per il recupero di giovani donne vittime della tratta e dello
sfruttamento, specie sessuale. Si è anche iniziata la collaborazione tra
Religiose e istituzioni governative e non, nei paesi di origine, di transito e di
destinazione delle giovani vittime. La rete è la nostra forza e il canale
adeguato per arginare questo fenomeno e per spezzare questa terribile catena di
schiavitù. In questa catena si intersecano molteplici anelli che hanno
nomi ben precisi: le vittime e la povertà; gli sfruttatori
e i loro ingenti guadagni, i clienti
con le loro frustrazioni; la società con
la sua opulenza e carenza di valori, i governi
con i loro sistemi di corruzione e di connivenze, la Chiesa e ogni
cristiano, con il silenzio e l’indifferenza.
Ieri, 24
Maggio, durante l’udienza concessa ai partecipanti alla plenaria del Pontificio
Consiglio per la Pastorale dei Migranti, dedicata alle “persone forzatamente sradicate”, il Papa, con il suo linguaggio
semplice, schietto, coraggioso e senza mezzi termini, ancora una volta, ci ha
spiazzato. Dopo aver richiamato l’attenzione sui milioni di rifugiati, sfollati
e apolidi, ha toccato la piaga dei “traffici
di esseri umani”, che sempre più spesso riguardano i bambini sfruttati e
reclutati anche nei conflitti armati; ha poi proseguito denunciando la tratta
di esseri umani mettendo “sfruttatori e
clienti” sullo stesso piano, giacché entrambi alimentato e sostengono la
schiavitù del nostro secolo. Ribadisco
che la “tratta delle persone” è un’attività
ignobile, una vergogna per le nostre società che si dicono civilizzate! Sfruttatori e clienti a tutti i livelli
dovrebbero fare un serio esame di coscienza davanti a se stessi e davanti a Dio.
Siamo tutti responsabili del
perpetuarsi della tratta di esseri umani specie per la compravendita e l’uso del
corpo della donna. Siamo convinti che non bastano le leggi, se pur
indispensabili, a fermare i flussi migratori, se la nostra società, insieme
alla Chiesa, non lavora seriamente per formare soprattutto i giovani alla cultura
del rispetto e della dignità di ogni persona. La violenza che nel nostro Paese
si sta scatenando, specie nei riguardi del mondo femminile, deve interrogarci
sul disagio che lacera la società. È venuto il momento, in cui ciascuno deve
fare la sua parte e assumersi le proprie responsabilità: autorità civili e
religiose, agenzie d’informazione e formazione, scuole, parrocchie, gruppi
giovanili e in modo particolare le famiglie. È necessario coinvolgere anche il
mondo maschile e maschilista, religiosi compresi, che non si mette in
discussione, perché aiuti, almeno i propri fedeli, a fare
un serio esame di coscienza davanti a se stessi e davanti a Dio.
Termino, ancora una
volta, con le chiare e sapienti parole di Papa Francesco, affinché illuminino
il cammino degli uomini e delle donne di buona volontà del nostro tempo: “La Chiesa rinnova oggi il suo forte appello affinché siano sempre
tutelate la dignità e la centralità di ogni persona, nel rispetto dei diritti
fondamentali. In un mondo in cui si parla molto di diritti, quante volte viene
di fatto calpestata la dignità umana! In un mondo nel quale si parla tanto dei
diritti, sembra che l’unico che ha diritti sia il denaro”.
Pubblicato il 27 maggio 2013 - Commenti (0)
03 mag
Nella squadra del nuovo governo guidato da Enrico Letta, abbiamo accolto con gioia e soddisfazione la nomina di sette donne scelte per coprire dicasteri di particolare rilevanza. Ci auguriamo che sappiano mettere a servizio del Paese le loro doti e capacità di donne aperte al nuovo e al diverso. La loro presenza, competenza e sensibilità di donne impegnate nel sociale faranno certamente la differenza, in un Paese che ha tanto bisogno di speranza.
Ora è il momento di voltare davvero pagina, una pagina triste e vergognosa, giacché abbiamo tutti perso in credibilità e fiducia. C’e’ quindi bisogno di lasciare da parte dispute e polemiche, divergenze e differenze per far emergere non tanto gli interessi di parte o di partito, bensì ciò che tutti auspicano come il “vero bene comune”, per creare una società più unita e coesa. Ci auguriamo che la presenza e le capacità di queste donne, nei loro diversi ruoli, possa smussare le tensioni e i conflitto, e possa aiutare a creare un governo più equo, umano e aperto alle esigenze di un mondo in costante evoluzione, bisognoso di stabilità e di comunione.
Tra i volti e i nomi nuovi al governo vi è l’olimpionica Josefa Idem, ministro per le Pari opportunità e lo Sport e Cécile Kyenge, ministro all’Integrazione, entrambe nate fuori dall’Italia. Entrambe hanno alle spalle esperienze diverse come origine, provenienza, impegno e ruoli ricoperti; sono però accomunate dall’esperienza della migrazione, con le sue ricchezze e opportunità, ma anche con le difficoltà e i pregiudizi che ancora persistono nella nostra società.
I missionari come me, che hanno vissuto e lavorato in altri Paesi, conoscono molto bene queste esigenze e difficoltà insieme alla ricchezza dello scambio, dell’accoglienza, della scoperta di valori umani fatti di relazione e di comunione, di accoglienza e di rispetto.
Ecco perché la scelta di Cécile Kyenge quale nuovo ministro dell'Integrazione ci ha favorevolmente sorpreso, per le sue scelte e i suoi principi, nonché per il desiderio di lavorare per un vero cambio di mentalità, tenendo presente la situazione che l’Italia sta vivendo in questo momento.
Gli immigrati, oggi, in un Paese che sta invecchiando rapidamente, non sono da considerarsi un peso e tanto meno un problema, bensì sono una grande risorsa da apprezzare e valorizzare. A questo proposito, Cécile Kyenge ha le idee chiare e afferma che: «La società civile in questo momento chiede a gran voce una nuova legge sulla cittadinanza e sulle politiche sociali, sul superamento dei Cie per ricondurre i centri al trattenimento limitato e temporaneo, con lo scopo di identificare lo straniero, nonché l’abrogazione del reato di immigrazione clandestina».
Il nuovo ministro dell’Integrazione ritiene necessario ripensare anche le modalità di ingresso in Italia per lavoro affinché gli immigrati siano più stabili, meno ricattabili e soggetti a varie forme di sfruttamento lavorativo. Tutto questo in piena sintonia con quanto ha affermato Papa Francesco il Primo maggio: «Quante persone, in tutto il mondo - ha detto il Pontefice - sono vittime di questo tipo di schiavitù, in cui è la persona che serve il lavoro, mentre deve essere il lavoro a offrire un servizio alle persone perché abbiano dignità. Chiedo ai fratelli e sorelle nella fede e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà una decisa scelta contro la tratta delle persone, all’interno della quale figura il lavoro schiavo».
Pubblicato il 03 maggio 2013 - Commenti (1)
16 apr
In queste settimane di convalescenza, a seguito di un difficile intervento alla schiena, ho potuto seguire solo per radio i primi passi del Pontificato di Francesco I. Tra le tante parole e gesti carichi di significato, non ho potuto non commuovermi per quell’appello lanciato proprio il giorno di Pasqua, quando il Pontefice ha augurato «il dono della Pace in un mondo ancora così diviso dall’avidità di chi cerca facili guadagni, ferito dall’egoismo che minaccia la vita umana e la famiglia, egoismo che continua la tratta di persone, la schiavitù più estesa in questo ventunesimo secolo; la tratta delle persone è proprio la schiavitù più estesa in questo ventunesimo secolo!».
Parole ripetute per ben due volte e pronunciate con tanta forza. Quanto abbiamo apprezzato questa sua attenzione e questo riferimento alla tratta di esseri umani, contro cui lottiamo da tanti anni, cercando di dare protezione alle vittime e di sensibilizzare l’opinione pubblica perché questo vergognoso traffico possa essere debellato.
Ora questo Papa, in uno dei suoi primi messaggi, parla proprio di quest’indegna schiavitù. Non solo, in una delle prime catechesi del mercoledì, Papa Francesco ha fatto emergere, con tanta delicatezza ma anche con forza, la presenza, il ruolo e il coraggio delle donne, che per prime vanno alla tomba vuota dove incontrano il Cristo risorto, credono in lui e vanno ad annunciare agli stessi apostoli che il Cristo era vivo.
E nessuno può negare queste attenzioni del Cristo per le donne, discepole e prime testimoni del Risorto.
Questo ci dà molto coraggio per il nostro impegno e la nostra testimonianza. E anche per il nostro sogno di una Chiesa che si metta in questione e che si rinnovi, cercando vie nuove per incontrare ogni persona creata e amata da Dio, a cui offrire il dono di una parola, di una vicinanza, di un conforto perché nessuno si senta solo, escluso o smarrito, ma parte di un grande famiglia.
La Chiesa che sogno da tempo è una Chiesa concepita come comunità di servizio, i cui pastori abbiano il coraggio di indossare il “grembiule della ferialità” e non solo i paramenti liturgici delle solennità, come simbolo di una autorità che serve, che ascolta, che partecipa, che cerca e accoglie soprattutto gli ultimi e gli esclusi, gli emarginati e i disperati, che condivide gioie e speranze, ma anche sofferenza e solitudine.
Ecco allora Papa Francesco che il giovedì santo, giorno dell’istituzione dell’Eucaristia, lascia la solennità delle cerimonie in San Pietro per recarsi nel carcere minorile di Roma per mettersi un grembiule, inginocchiarsi davanti a dodici giovani con un passato difficile, per lavare e baciare i loro piedi, tra cui due ragazzine, ospiti della struttura.
In queste prime settimane di Pontificato il sogno una Chiesa che si fa pellegrina sulle strade del mondo per incontrare, come Cristo, i poveri di oggi e annunciare che il Regno di Dio appartiene proprio a loro, si è davvero incarnata e ha iniziato un nuovo cammino. Speriamo che possa dare i suoi frutti di cambiamento, mettendo al centro l’esperienza del Risorto, che ancora cammina sulle nostre strade, compagno di viaggio di ogni persona, uomini e donne salvati dall’amore e dalla misericordia di Dio.
«Come vorrei una chiesa povera e per i poveri!», ha auspicato, in una delle sue prime uscite Papa Francesco. Frase che ha rivelato, sin dall’inizio del suo pontificato, un programma e uno stile fatto non solo di parole ma soprattutto di gesti, concreti e quotidiani. Ci stiamo così abituando a un linguaggio nuovo, semplice, concreto e diretto, capace di arrivare al cuore di ogni persona. Papa Francesco, con la sua semplicità, ha ricordato a tutta la Chiesa la necessità di riscoprire la bellezza, l’attualità e la fedeltà al Vangelo, che ci chiama ad essere, anche noi, testimoni del Cristo Risorto. Con forza ha incoraggiato tutti, pastori e fedeli, a uscire dalle nostre sicurezze per andare verso le “periferie” e i “deserti” delle nostre città, per incontrare i poveri, gli emarginati, i sofferenti, i giovani, i bisognosi di speranza e di coraggio. A quest’ultimi il Papa ha più volte ripetuto: «Non lasciatevi rubare la speranza».
Un appello che è arrivato al cuore del mondo intero, così bisognoso di speranza, di gioia e di solidarietà, specialmente per chi è discriminato, umiliato e derubato persino della propria dignità.
Pubblicato il 16 aprile 2013 - Commenti (3)
19 mar
In più occasioni ho cercato di far emergere le gravi problematiche legate al Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria. Oggi vorrei ricordare con riconoscenza il servizio di tante religiose che in questo Cie incontrano migliaia di donne immigrate di vari Paesi. Da dieci anni!
Era, infatti, il 15 marzo 2003, quando un primo gruppetto di cinque suore di diverse congregazioni e nazionalità varcavano timidamente per la prima volta i pesanti cancelli di quello che allora si chiamava Centro di permanenza temporanea (Cpt) di Ponte Galeria (Roma), per iniziare visite settimanali alle donne immigrate che vi sono recluse perché prive di documenti. Più tardi il Cpt è stato trasformato in Cie e la reclusione è passata da 30 giorni a 60 giorni e, dal giugno 2011, addirittura a 18 mesi.
Da allora andiamo a Ponte Galeria ininterrottamente tutti i sabati pomeriggio. Come donne e religiose volevamo entrare in quel luogo di sofferenza e solitudine per incontrare le donne immigrate in attesa di espulsione, offrire ascolto e conforto e condividere un momento di preghiera ecumenica specialmente con le donne africane di lingua inglese. Si tratta in maggioranza di nigeriane, quasi tutte vittime di tratta, trovate sulle strade, senza documenti.
All’inizio, l’impatto con tutte quelle donne (in certi momenti sino a 180!), stipate in dormitori squallidi, freddi e spogli, tra sbarre di ferro che si confondono con il grigiore del pavimento di cemento, ci ha terribilmente impressionate. Le donne avevano a disposizione solo un letto e vivevano tutto il giorno nell’inerzia assoluta, senza progetti, programmi o qualsiasi coinvolgimento e occupazione. L’assistenza pastorale e religiosa che volevamo offrire è stata subito accolta con molta riconoscenza soprattutto dalle nigeriane. Allo stesso tempo, altre donne di diverse nazionalità hanno chiesto di poter avere pure loro la visita di religiose provenienti dai loro Paesi e che parlassero la loro lingua. Ci siamo organizzate e, grazie alla presenza di altre suore, il loro desiderio è stato accolto.
In questi dieci anni di servizio al Centro abbiamo incontrato moltissime donne di Paesi africani: Nigeria, Togo, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Somalia, Eritrea, Etiopia, Kenya, Sudan e Tanzania. Seguono quelle provenienti dai Paesi arabi: Libia, Tunisia, Marocco. Dall’Est Europeo: Romania, Albania, Serbia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Kosovo. Dai Paesi dell’ex Unione Sovietica: Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Kazakhstan, Russia, Siberia. Dall’Asia: Mongolia e Cina. Ci sono anche presenze dall’America Centrale e del Sud, con ragazze provenienti da Colombia, Brasile, Ecuador, Perù, Bolivia, Argentina, Guatemala, Cile, San Salvador.
Nonostante il clima spesso triste e opprimente, non sono mancati in questi dieci anni i momenti di festa, in particolare in occasione del Natale, dell’Epifania, della Pasqua, ma anche della Festa delle donne e di quella della Mamma. Durante questi incontri oltre alla distribuzione di piccoli doni utili - indumenti personali, tute calde, borse… - si condividono canti, musica e danze improvvisate che creano comunione, aggregazione e gioia.
Il gruppo di religiose - che qualcuno ha ribattezzato la “squadra di Ponte Galeria” - è andato sempre più aumentando, con nuove presenze e provenienze, per rispondere ai bisogni di tutti i gruppi di vari Paesi. Pian, piano la nostra presenza fatta di relazioni e contatti, sia con le detenute come con il personale che gestiva il Centro, è diventata sempre più ricercata ed apprezzata per l’atmosfere di fiducia che aveva creato.
Questi dieci anni di servizio ininterrotto, in questo luogo di ingiustizia e di sofferenza inutile, ha visto il coinvolgimento e la presenza di 60 religiose provenienti da 27 Paesi e appartenenti a 28 congregazioni religiose. Un bellissimo esempio di lavoro in rete per una pastorale a difesa e protezione di donne povere, vulnerabili e senza diritti semplicemente perché senza documenti.
Spesso abbiamo alzato la voce per denunciare la terribile ingiustizia di lasciare queste donne a sprecare mesi preziosi della loro vita senza un motivo serio e in condizioni disumane. Abbiamo coinvolto e informato personale istituzionale e di governo, i media e tutto coloro a cui sta a cuore la dignità della persona. Più volte abbiamo auspicato che si formassero dei tavoli di confronto tra istituzioni governative e membri di associazioni coinvolte sul territorio per trovare insieme soluzioni degne di un Paese civile e rispettoso dei diritti umani, nel rispetto delle leggi ma anche della dignità della persona.
Purtroppo i nostri appelli non sono mai stati ascoltati. Eppure, sebbene la nostra presenza sembra non produrre frutti di cambiamento nelle istituzioni, noi non ci scoraggiamo e non vogliamo disertare questo impegno settimanale, continuando a garantire una presenza costante di consolazione e vicinanza a chi soffre.
Un ultimo pensiero riconoscente alle religiose e alle loro comunità e congregazioni per questo prezioso servizio che certamente comunica una piccola luce di conforto e speranza a tutte le donne che abbiamo incontrato, amato e sostenuto.
Pubblicato il 19 marzo 2013 - Commenti (0)
15 mar
Ancora una volta lo Spirito Santo ci ha spiazzati tutti e ci ha sorpresi con la scelta di un pastore che si è presentato così: «I Fratelli Cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo…».
Con la scelta del nome Francesco, lui, il gesuita cardinal Jorge Mario Bergoglio, si è mostrato immediatamente con un’identità ben precisa e un programma di vita inconfondibile, fatto di semplicità e umiltà, essenzialità e concretezza, povertà e servizio, e non certamente di potere o di prestigio.
Espressione sincera di una “Chiesa del grembiule” che vuole ritrovare il suo vero volto e la sua vera funzione nel mondo contemporaneo attraverso una testimonianza evangelica autentica tra e per i poveri, gli ultimi, gli emarginati, i disperati, per ridare speranza e coraggio in nome e sull’esempio di quel Cristo pastore che è venuto per servire e non per essere servito, per dare la vita per le sue pecore, specie le più abbandonate e le più sole.
Anche la Chiesa ha bisogno di rinnovamento e di nuova vitalità per essere coerente alla sua missione. Forse Papa Francesco potrà personificare e implementare quelle intuizioni e desideri di cambiamento che il suo confratello cardinal Carlo Maria Martini avevo espresso e condiviso in una delle sue ultime interviste. Due grandi Pastori, due grandi Testimoni e due grandi Maestri.
Ma ciò che mi ha maggiormente colpito dalla sua prima apparizione è stato certamente il suo atteggiamento umile e disarmante, sorpreso di trovarsi davanti alla folla di centinaia di migliaia di persone che lo acclamava e attendeva da lui la sua prima benedizione. E proprio di fronte a questa folla immensa, dopo aver ricordato e fatto pregare per il vescovo di Roma emerito, Benedetto XVI, lui stesso si è inchinato profondamente con un gesto di grande semplicità e umiltà per chiedere ai fedeli una preghiera silenziosa, implorando la loro benedizione su di lui e sul suo nuovo ministero.
Molte impressioni, auguri e auspici si sono susseguiti da Capi di Stato e di religioni, da varie personalità di Chiesa così come dalla gente comune. Tutti esprimono gli stessi sentimenti di speranza e di vicinanza, nonché il desiderio e l’auspicio di un autentico cambiamento nella Chiesa, che possa offrire risposte vere e concrete all’umanità odierna che sembra aver perso il senso della persona e dei suoi valori indelebili.
Personalmente condivido e mi faccio interprete del desiderio, espresso da molti, di una svolta culturale che faccia emergere maggiormente anche nella Chiesa la figura e la presenza della donna, dando seguito ai tanti quesiti e auspici emersi nel Concilio Vaticano II e purtroppo non ancora implementati.
Anche noi donne, religiose e laiche, madri e sorelle, impegnate in tutti i campi della vita quotidiana, nella politica, nella Chiesa e nella società, sentiamo il bisogno di esprimere la nostra speranza, affinché Papa Francesco possa ascoltare ancora quel grido udito dal Poverello d’Assisi che proveniva dal Crocifisso della diroccata chiesa di San Damiano, otto secoli fa. Un grido, forse, non ancora completamente attuato nella Chiesa: «Francesco, ripara la mia casa».
Ripara la mia Chiesa, ripara le divisioni, le discriminazioni, i conflitti d’interesse, le relazioni, affinché la Chiesa del Terzo Millennio sia sempre e solo segno di speranza e di comunione, di servizio e di accoglienza, di fiducia e di perdono. E che sia sempre vicina a quanti sono affamati, assetati e stanchi, bisognosi di misericordia, di consolazione e di aiuto.
Quanto è più povera la Chiesa senza la presenza e l’intuizione del genio femminile! Moltissime sono state in passato le testimonianze di donne intuitive, equilibrate, semplici e profetiche che hanno operato nella Chiesa e nella società. Perché ancora oggi si tende a eludere o a misconoscere la collaborazione responsabile della donna negli ambienti ecclesiali? Eppure il messaggio evangelico passa anche oggi attraverso la presenza e il coinvolgimento delle donne, che continuano a essere gli agenti privilegiati della trasmissione della fede.
È quanto emerso con forza anche nell’ambito di un incontro organizzato da un gruppo francescano di donne, in collaborazione con il comune di Ravenna, all’indomani dell’elezione del nuovo Papa. Come spesso accade, mi sono state rivolte alcune domande sul ruolo della donna nella Chiesa. Perché il suo servizio non viene riconosciuto e valorizzato? Perché la donna non viene ammessa negli ambiti direttivi e decisionali nella Curia vaticana, nelle diocesi, nelle parrocchie, nei seminari, nei luoghi di pensiero e di impegno? Perché è ancora così difficile parlare di parità e uguaglianza.
Domande che a volte creano imbarazzo, perché non si trovano motivazioni esaurienti se non la costatazione che purtroppo, anche nella Chiesa, vige ancora una gerarchia completamente maschile - e spesso maschilista - e la donna ha ancora un ruolo di sottomissione e manovalanza, anche quando si tratta di decisioni che la riguardano direttamente: decisioni a volte prese per lei e non con lei.
Perché invece non riconoscere le donne e valorizzarle come è stato per Francesco e Chiara? Contiamo molto su Papa Francesco, perché anche in questo si ispiri al Poverello di Assisi.
Pubblicato il 15 marzo 2013 - Commenti (1)
08 mar
Tante volte, nell’ultimo anno, abbiamo parlato della dignità delle donne, e ancora più spesso della violazione dei loro diritti, di sfruttamento e “femminicidio”. Oggi, in questa Giornata internazionale della donna, vorrei invece parlare di noi, donne e religiose.
Quante volte e quante persone, di fronte alla costatazione del calo numerico di vocazioni, particolarmente femminili, si sono poste l’interrogativo se vi è ancora un senso e un futuro per questa categoria di donne consacrate nella Chiesa.
Per molti anni, in passato, le congregazioni femminili hanno avuto ruoli e offerto servizi di grande rilevanza, specie nel campo della carità e dell’assistenza. Ma come si presenta la vita religiosa femminile, oggi? Quali sono le sfide che deve affrontare e quali le forze operanti, specialmente nel mondo dell’emarginazione sociale, di fronte alle nuove povertà?
Il ministero della vita religiosa guardando al futuro: questo il titolo di un convegno che si è appena concluso presso l’Unione superiori maggiori d’Italia (USMI), che ha visto la partecipazione di oltre settanta religiose, in gran parte impegnate sul fronte del sociale, e particolarmente nei settori dell’emarginazione e immigrazione. Questo mi offre lo spunto per alcune riflessioni, allargando lo sguardo sugli avvenimenti di Chiesa e nazione di questi ultimi tempi. I molti e significativi eventi di questi giorni sia per la Chiesa universale con le dimissione del Santo Padre, da una parte, sia le elezioni legislative del nostro Paese, dall’altra, hanno in un certo senso focalizzato le riflessioni e le preoccupazioni, mettendo anche noi di fronte alle sfide che i nostri carismi ci impongo.
Nei mesi scorsi, come team operativo dell’USMI nazionale ci siamo ritrovate insieme per mettere a fuoco un convegno che aiutasse la vita religiosa a vivere ogni giorno l’esperienza di manifestare la propria fede attraverso le opere di carità. Nessuna allora poteva immaginare che ci saremmo trovate a Roma a vivere, negli stessi giorni del convegno, avvenimenti di tale portata ecclesiale e sociale.
E allora mi è venuto spontaneo pensare ai nostri fondatori e fondatrici e alla grande visione e profezia di cui sono stati capaci. Non hanno avuto paura di rischiare, di scendere nelle strade e nei luoghi infami della povertà e del degrado sociale per rispondere alle necessità impellenti del loro tempo. Allo stesso modo, ancora oggi, dobbiamo lasciarci interrogare come donne, religiose e cittadine dalle grande sfide della società in cui siamo inserite e dobbiamo sapere trovare risposte lungimiranti e profetiche, attraverso i nostri servizi agli ultimi, facendoci semi fecondi e originali, all’interno della società e della Chiesa.
Dobbiamo, oggi più che mai, essere donne capaci di sognare, di osare, di metterci in gioco con coraggio e amore, in prima persona, per rispondere ai nuovi segni dei tempi e alle nuove richieste di presenza e servizio.
Pubblicato il 08 marzo 2013 - Commenti (0)
04 mar
Benedetto XVI, con la sua sconvolgente e inaspettata decisione dello scorso 11 febbraio di lasciare il timone della Chiesa di Cristo ad altre mani più forti e robuste, ha messo tutti noi di fronte al segno più tangibile ed eloquente di come vivere la fede oggi attraverso segni concreti e disarmanti, fatti di umiltà e coraggio, di novità e lungimiranza.
Questo gesto, così profetico e umano allo stesso tempo, avviene in un momento particolare non solo per la Chiesa di Pietro che ha sede a Roma; esso infatti si è posto, senza volerlo, in contrapposizione con la ricerca sfrenata, accanita, spudorata e violenta del potere ad ogni costo da parte di partiti e politici, non tanto per gli interessi della comunità, ma più spesso per il proprio tornaconto personale.
La dilagante corruzione e l’abuso di fondi pubblici hanno contribuito a impoverire l’Italia e gli italiani, non solo da un punto di vista economico, ma soprattutto di valori veri e umani. Questo è la visione e la realtà che molte persone hanno vissuto sia durante che dopo le elezioni. E questo è anche il desiderio di molti: condurre di nuovo l’Italia verso una cultura di onestà e rispetto, di accoglienza e cura, specialmente delle fasce di persone più deboli e a rischio.
Quante persone sono state deluse e sconcertate di fronte a una campagna elettorale meschina, denigratoria e non degna di un popolo civile, che chiede invece dignità e rispetto nelle parole e nei gesti. Quante persone sono rimaste confuse e hanno perso fiducia nelle istituzioni che i nostri politici di tutti gli schieramenti dicevano a parole di voler rappresentare. Quanti soldi sprecati in cartelloni pubblicitari con parole vuote di senso e di realtà.
Ora è tempo di voltare davvero pagina e di mettersi seriamente alla ricerca del bene comune per aiutare la nostra società a costruire un futuro fatto di umanità e soprattutto di attenzione ai giovani, alle donne, al mondo del lavoro e delle famiglie. Ma per fare questo dobbiamo tutti rimboccarci le maniche e assumerci ciascuno le nostre responsabilità: l’Italia, o la si si salverà tutti insieme o finirà per sprofondare - e noi con lei - nel baratro della povertà e dell’umiliazione anche a livello internazionale.
Ben venga quindi l’esempio di Benedetto XVI che, con il gesto della rinuncia al potere e ai suoi privilegi di capo e pastore della Chiesa, ci ha insegnato che cosa vuol dire essere coerenti con i principi della fede in Colui che, ancora oggi, ripete a noi tutti una cosa fondamentale: chi vuole essere il primo deve farsi il servo di tutti, giacché Lui, il Cristo è venuto per servire e non per essere servito. E con Giacomo anche noi ci ricordiamo che: la fede se non ha le opere, è morta in se stessa… «Mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede». (Gc 2, 14-19)
Pubblicato il 04 marzo 2013 - Commenti (1)
13 feb
Ho accolto la notizia della dimissione di Benedetto XVI con stupore e ammirazione. Stupore perché nessuno poteva prevedere una simile decisione; ma anche ammirazione per l’umiltà e il coraggio con cui il Papa ha voluto rompere alcuni schemi, tradizioni e norme di tanti secoli di storia della Chiesa per intraprendere cammini nuovi. Si è assunto la responsabilità di una scelta libera e coerente con i suoi principi di onestà e fedeltà a Cristo e di servizio alla sua Chiesa.
Il suo gesto è stato davvero un grande esempio per tutti noi, ma
particolarmente per quanti hanno ruoli di governo nella società e nella
Chiesa, che non sempre sanno cedere la responsabilità a nuove forze per
una maggior vitalità ed efficienza di servizio alla comunità. Il Santo
Padre ha deciso di lasciare la sua responsabilità di Pastore della
Chiesa non per viltà o paura della fatica, bensì, come lui stesso ha
espresso, per passare il timone della barca di Pietro in mano a forze
nuove, considerando il vero bene della comunità, sia umana che
cristiana. Certamente, con questa decisione, la Chiesa ha imboccato una
nuova strada.
Durante questi otto anni di Pontificato, ho avuto più
volte modo di incontrare Benedetto XVI personalmente e consegnargli a
mano alcune lettere, in cui condividevo le tante preoccupazioni per il
dilagare di una cultura sempre più mercantile, dove tutto si può vendere
e comperare, anche il corpo di una donna e di un minorenne. Il Santo
Padre ha sempre risposto con parole di apprezzamento per il servizio
dalle religiose, incoraggiandole e «assicurando una preghiera anche per
tutte le vittime del traffico di esseri umani e per quanti operano a
loro favore».
L’incontro che maggiormente ricordo è stato durante un
seminario internazionale, nell’ottobre del 2007, organizzato dall’USMI
in collaborazione con l’Ambasciata USA presso la Santa Sede. Vi hanno
partecipato religiose di 26 Paesi di tutti i continenti, impegnate nel
contrasto alla tratta di esseri umani. Scopo di tale incontro era il
mettere insieme le esperienze di tante religiose, già operanti a favore e
protezione della dignità della donna, per creare una rete
internazionale, collegando i Paesi di origine, transito e destinazione
di migliaia di vittime vendute e comprate.
Il Santo Padre, informato
di questo incontro, ci ha fatto pervenire, tramite il Cardinal Bertone,
segretario di Stato, un messaggio augurale, in cui affermava: «Il Papa
ringrazia le religiose che si dedicano alle vittime del terribile
crimine, nelle quali l’immagine di Dio viene ogni giorno calpestata e
violata, e incoraggia a proseguire nel delicato compito, anche tramite
la prima rete al mondo di questo genere, che è stata avviata nel corso
del Seminario». E aggiunge: «La Chiesa condanna nel modo più forte e
risoluto questo esecrabile fenomeno che considera gli esseri umani come
oggetti, cose che si possono acquistare, vendere e usare per gli scopi
più abbietti. Esso colpisce, in modo speciale i più deboli e indifesi,
come le donne e i bambini, distrugge le famiglie e le persone e rovina
il tessuto sociale e la speranza di sviluppo delle nazioni».
Tutte le
partecipanti erano presente all’udienza del mercoledì, in Piazza San
Pietro, in una sezione riservata, ed io ebbi la possibilità di
incontrare Benedetto XVI, parlargli delle nostre preoccupazioni e
ringraziarlo per la sua attenzione al fenomeno di questa nuova forma di
schiavitù. Il ricordo più bello ed eloquente che mi porto nel cuore,
oltre alle parole che ci siamo scambiati, è stata la forza delle sue
mani, il suo sguardo penetrante e sereno, nonché la sua benedizione per
tutto il gruppo che rappresentavo.
Ancora una volta, a nome di tutte
le religiose che operano in questo settore a livello nazionale e
internazionale, nonché in comunione con le migliaia di vittime strappate
allo sfruttamento e alla schiavitù, desidero ringraziare Benedetto XVI
per il suo sostegno mentre assicuriamo la nostra preghiera e chiediamo
la Sua paterna benedizione.
A Lui va il nostro ricordo affettuoso e
riconoscente, in questo momento di passaggio verso una testimonianza
nuova, ma altrettanto importante e fruttuosa, fatta di silenzio e
preghiera di cui la nostra umanità ha estremamente bisogno.
Pubblicato il 13 febbraio 2013 - Commenti (1)
18 gen
Questo nuovo anno 2013, come abbiamo già raccontato in questo blog, si è purtroppo aperto con vecchie notizie. In modo particolare per quanto riguarda le sconcertanti violenze sulle donne. Un fenomeno globale che si traduce in varie e drammatiche situazioni: basti guardare a quanto successo in India, dove moltissime donne e ragazze sono state stuprate e uccise. Per non parlare di Paesi come la Repubblica Democratica del Congo, dove migliaia di donne continuano a essere violentate e uccise nella completa impunità dei criminali e nella totale indifferenza del mondo.
Ma anche in Italia, solo nell’ultimo anno, ci sono stati oltre 120 “femminicidi”, un fenomeno a cui i media hanno dato giustamente molta evidenza. Meno si parla di un'altra situazione più sommersa, ma altrettanto drammatica: quello della tratta degli esseri umani, specialmente per lo sfruttamento sessuale. Una vera e propria schiavitù contemporanea. Che riguarda milioni di donne in tutto il mondo e decine di migliaia nel nostro Paese.
Come sapete da molti anni sono in campo per combattere questo vergognoso traffico e la mercificazione del corpo della donna. Per farlo in maniera ancora più efficace, abbiamo voluto costituire, insieme a un gruppo di amici, suore e operatori impegnati a vario titolo nella lotta al traffico di esseri umani e nella salvaguardia delle vittime, una nuova associazione: “Slaves no more onlus” (Mai più schiave).
L’obiettivo è quello di poter agire in modo ancora più efficace per prevenire e contrastare le violenze sulle donne e per combattere il fenomeno della tratta, lavorando in rete con altri gruppi, enti e associazioni sia in Italia che all’estero.
Di qui, il nome in inglese. Proprio perché ci inseriamo, sin da subito, in una dimensione internazionale. Quello del traffico di esseri umani si configura, infatti, come un fenomeno che tocca diversi Paesi di origine, transito e destinazione con cui vorremmo intensificare contatti e collaborazioni.
Tra i nostri scopi prioritari abbiamo voluto mettere a fuoco la formazione e l’informazione, la prevenzione e la liberazione della donna emarginata e vittima di situazioni che la privano della sua dignità e legalità.
Ma anche il sostegno e la reintegrazione socio-lavorativa attraverso la realizzazione di progetti personalizzati sia in Italia che nei Paesi di provenienza delle donne immigrate. Questo perché vorremmo potere restituire un futuro a giovani donne, a cui è stata tolta qualsiasi prospettiva di vita dignitosa.
“Slaves no more” nasce, dunque, con un orizzonte ampio. E tra i primi progetti, si impegnerà a realizzare rimpatri assistiti di giovani donne nigeriane vittime di tratta e sfruttamento sessuale, rinchiuse nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) o accolte in case di accoglienza. Un modo per dire, molto concretamente, che questi viaggi da incubo non sono a senso unico, ma che si può tornare a casa in maniera dignitosa. Per questo l’associazione intensificherà l’opera di collaborazione già avviata da diversi anni con il Comitato per il supporto della dignità della donna (Cosudow) della Conferenza delle religiose nigeriane e con altri enti e associazioni che operano in Nigeria.
L’associazione “Slaves no more” è stata fondata a Roma, simbolicamente presso le suore di San Pietro Claver, il santo che lottò contro la tratta di schiavi verso le Americhe. Erano presenti 23 soci fondatori, religiose, laici, volontari, professionisti già impegnati a diverso livello e titolo nella lotta contro le violenze sulle donne e contro il traffico di esseri umani. L’Associazione ha sede legale presso la casa di accoglienza per donne e bambini “Maria Maddalena” di Nettuno (slavesnomore@libero.it)
Pubblicato il 18 gennaio 2013 - Commenti (0)
02 gen
Al termine del 2012, anno assai travagliato e confuso, tra crisi economica e abusi di potere, tra politica e corruzione, tra guerre e distruzione ambientale, la notizia della scomparsa di Rita Levi Montalcini all’età di 103 anni, avvenuta a Roma il 30 dicembre, ha fatto riscoprire a tutti gli italiani la grandezza, la ricchezza e la bellezza della vita di questa grande donna, spesa a servizio dell’umanità e della scienza.
Sebbene la Montalcini fu insignita nel 1986 del Premio Nobel per la medicina e nominata nel 2001 Senatrice a vita - insieme a moltissimi altri riconoscimenti internazionali -, lei non ha mai ricercato il successo per una carriera brillante, il prestigio, il potere e tanto meno per interessi personali, bensì la sua vita è stata spesa tutta intera per lasciare in eredità il suo contributo di donna intelligente, forte e tenace, lungimirante e determinata.
Lascia in modo particolare a noi donne d’oggi un modello di semplicità e coerenza con i suoi principi e i suoi valori, nonché un’icona di bellezza e ricchezza per nulla legate all’esteriorità del suo esile corpo, ma alla forza del suo pensiero e della sua intelligenza, capace di coinvolgere e ottenere ammirazione, apprezzamento, emulazione e rispetto. La sua scomparsa nella semplicità e nel silenzio ha fatto emergere una volta di più il grande valore di una testimonianza vera e di una vita coerente sino alla fine.
«Quando muore il corpo - aveva confessato in un’intervista la Montalcini - sopravvive quello che hai fatto, il messaggio che hai dato». E lei ha veramente vissuto questa testimonianza e lasciato questo messaggio. E ancora, in un’altra intervista rilasciata negli ultimi anni, affermava di aver perso la vista e l’udito, di presentarsi con le rughe sul viso, segno di una lunga vita che non voleva nascondere e di cui non si vergognava, giacché per lei ciò che era importante non era il corpo ma il pensiero. E affermava: «Penso più adesso di quando avevo vent'anni. Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente».
Domenica 30 dicembre, il telegiornale delle ore 20 di RAIUNO ha dato la notizia della sua scomparsa, ricordando la figura di questa donna che ha vissuto a lungo, focalizzando la sua vita e la sua missione verso un obiettivo preciso: quello di contribuire alla scoperta della medicina per alleviare le sofferenze umane.
Durante lo stesso telegiornale, tuttavia, immediatamente dopo il servizio dedicato alla figura e alla statura morale di tale donna, sono stati presentati vari calendari realizzati in questi ultimi cinquant’anni. Naturalmente tutti presentavano solo donne seminude per mettere in evidenza la bellezza del loro corpo.
Come ho ripetuto tante volte, passa anche di qui il processo di mercificazione del corpo della donna e la sua valorizzazione come unica ricchezza. Purtroppo anche questa è una forma di “vendita” del corpo. Che non avviene sulle strade, come succede a molte ragazze trafficate e costrette a prostituirsi, ma che si realizza in maniera più subdola e sofisticata, creando una mentalità meramente consumistica che non risparmia neppure la persona umana.
Perché continuare a presentare sempre e solo corpi nudi, quasi che la bellezza esteriore abbai il soppravvento sui valori veri della donna e sul suo ruolo nella società a tutti i livelli? C’è proprio bisogno di vedere corpi nudi per far vendere e divertire il pubblico? È proprio questo che la gente vuole?
La stessa Montalcini aveva avuto modo di dire con il suo consueto acume: «Le donne che hanno cambiato il mondo, non hanno mai avuto bisogno di “mostrare” nulla, se non la loro intelligenza».
E questo è anche il mio augurio per tutti voi all’inizio di questo 2013.
Pubblicato il 02 gennaio 2013 - Commenti (5)
28 dic
Vorrei condividere questa lettera aperta di suor Rita Giaretta, con cui lavoriamo da molti anni, lottando contro il traffico di esseri umani e per la dignità delle donne. Specialmente di quelle che subiscono violenze, fisiche e psicologiche, che vengono sminuite e oltraggiate, abusate e ridotte in schiavitù.
Facciamo nostre la denuncia e l’indignazione di suor Rita, rinnovando il nostro impegno a lottare anche contro una mentalità violentemente maschilista, ancora troppo diffusa nella nostra società e purtroppo anche nella Chiesa.
In veste di responsabile di “Casa Rut” - Centro di accoglienza per donne vittime di tratta, di abusi e di violenze - sento il bisogno di esprimere tutta la mia indignazione di fronte al gesto “inquietante” e oserei dire “violento” compiuto dal parroco di San Terenzo (La Spezia), don Piero Corsi, con l’affissione in Chiesa del volantino in cui è riportato un editoriale del sito Pontifex dal titolo “Le donne e il femminicidio, facciano sana autocritica. Quante volte provocano!”.
Ancora si ricade in quella vecchia mentalità, che purtroppo a troppi maschi ancora piace e soddisfa, che vede nella donna o la moglie sottomessa o la prostituta o ancor peggio la tentatrice. Quanto siamo lontani, a livello culturale e comportamentale, dal riconoscere, rispettare e valorizzare appieno la dignità della donna, da parte del mondo maschile (compresi i sacerdoti).
Se si pensa a tutte le donne uccise in quest’anno per mano di mariti, compagni e fidanzati, c’è non solo da rabbrividire ma da riflettere seriamente. Mi piace qui riportare quanto detto in una nostra “lettera aperta” del 27 gennaio 2011 - che ha avuto risonanza nazionale, nella quale all’Erode di turno - incarnato dall’allora Primo Ministro e capo di Governo - come donne, come cittadine e come religiose, avevamo gridato il nostro «non ti è lecito».
Nella lettera dicevo: «Ma davanti a questo spettacolo una domanda mi rode dentro: dove sono gli uomini, dove sono i maschi? Poche sono le loro voci, anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi c’è ancora troppa omertà, nascosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c’è un grande bisogno di liberazione».
Parole, queste, che sento oggi con forza di rinnovare e di rivolgere non solo a don Piero Corsi, ma a tutto il mondo maschile, e soprattutto alla mia Chiesa, che purtroppo dal punto di vista istituzionale è ancora fortemente maschilista. Di fronte a questa realtà ecclesiale molte altre domande mi rodono dentro: che genere di formazione hanno avuto e soprattutto hanno oggi i sacerdoti? Vengono educati, formati e sostenuti a vivere relazioni positive, autentiche e libere con il genere femminile? O ancora oggi i seminari sono prevalentemente luoghi chiusi, riservati ai soli maschi - docenti e animatori - mentre le figure femminili presenti sono unicamente di contorno, con servizi generici: cucina, lavanderia, pulizie? Quale idea di donna può elaborare e coltivare un futuro sacerdote che è formato a vivere e a sentire il ruolo sacerdotale come un “privilegio sacro” riservato unicamente al genere maschile?
Mi auguro che la mia chiesa, di cui mi sento parte viva, possa sempre più aprirsi alla luce di Cristo per vivere in novità di vita il Vangelo nel quale, come afferma San Paolo nella lettera ai Galati, «non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, perché tutti siete uno in Cristo», che significa tutti uguali in dignità.
E allora, di fronte a questi inquietanti e profondi interrogativi, non basta far rimuovere un volantino, ma bisogna impegnarci tutti, a partire dalla Chiesa, nelle sue istituzioni, a rimuovere una mentalità che ancora discrimina e uccide la donna. Anche oggi risuona il grande annuncio di vita e di speranza consegnato da Gesù alle donne: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato. Ed esse, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri» (Lc 24,5-6).
Suor Rita Giaretta – Casa Rut, Caserta
Pubblicato il 28 dicembre 2012 - Commenti (8)
19 dic
La figura di Giovanni Battista, che abbiamo incontrato la scorsa domenica in preparazione al Natale, mi ha offerto molti spunti di riflessione e confronto. Il Battista, uomo austero ma veritiero, non si presta a compromessi, specialmente con il potere, anche quando la verità detta senza sconti al potente di turno verrà pagata con la sua stessa vita.
Di fronte alle folle, che andavano da lui per farsi battezzare nel fiume Giordano e lo interrogavano su che cosa dovevano fare per prepararsi all’attesa del Messia, rispondeva con toni forti e chiari: «Convertitevi». Una folla composta di gente semplice lo seguiva affascinata dalla testimonianza della sua vita e dalla sua predicazione. Molti chiedevano che cosa avrebbero dovuto fare per convertirsi. Lui rispondeva semplicemente di condividere il poco che avevano, vestiario e cibo, con chi ne era privo, mettendo in risalto l’importanza della condivisione e della solidarietà.
Agli esattori delle tasse, i cosiddetti i pubblicani, diceva invece di non esigere più di ciò che era stato fissato dalla legge, mentre ai soldati intimava di non maltrattare e di non estorcere niente a nessuno, accontentandosi delle loro paghe.
Risposte assai eloquenti e quanto mai attuali, anche in questo difficile momento sociale e politico che sta attraversando il nostro Paese. La cronaca di questi ultimi mesi è infarcita di notizie riguardanti la corruzione e l’appropriazione illecita di beni comuni da parte di pubblici funzionari, scelti per essere i garanti della giustizia e del bene comune.
Ancora una volta la Parola di Dio, sempre attuale in ogni tempo, interpella ciascuno di noi e ci invita a rivedere le nostre posizioni, i nostri doveri, i nostri impegni assunti come cittadini prima ancora che come cristiani o seguaci di altri credi o religioni. Questa è la buona novella che ancora oggi più che mai abbiamo bisogno di ascoltare e ricordare, ma soprattutto vivere nei nostri rapporti quotidiani. Lasciamoci interpellare da questa Parola, che ci aiuterà a ritrovare la via della giustizia e dell’onestà, che porterà equilibrio e saggezza nella nostra vita quotidiana e ancor più nel nostro operare all’interno della società e a servizio degli altri.
A Natale non basta offrire briciole di elemosina per tranquillizzare la nostra coscienza, o ripetere che dobbiamo essere tutti più buoni e solidali. Dobbiamo invece avere il coraggio di restituire ciò che abbiamo sottratto e sperperato vergognosamente ai banchetti del “ricco epulone”, mentre tanti poveri “Lazzari” sostano alle nostre porte, chiedendo aiuto e protezione, solidarietà e giustizia.
In questi giorni di attesa del grande evento del Natale dobbiamo chiederci che cosa fare per prepararci ad accogliere il Messia. Scopriremo che tutti siamo chiamati a condividere con tanti fratelli e sorelle meno fortunati il senso vero e la gioia del Natale, che non è fatto solo di regali, cenoni o viaggi. Il Natale è innanzitutto un’occasione per rivedere la nostra vita e le nostre relazioni, doveri e responsabilità. Ogni anno il Natale viene a ricordare alla nostra umanità smarrita e confusa che ciascuno di noi deve avere il coraggio di mettersi in questione.
Quest’anno penso soprattutto ai giovani e a tutte le persone sfiduciate, stanche e senza prospettive di un futuro degno di essere vissuto con dignità. Rivedo in loro, con sgomento e compassione, lo smarrimento e la confusione, e soprattutto la mancanza di speranza. E condivido la delusione nei confronti di tutti coloro che ancora oggi detengono il potere, abusando del loro ruolo e della nostra fiducia, dimenticando che questo potere non è stato dato loro per il perseguimento di interessi personali, ma per provvedere al vero bene comune, con particolare attenzione per i più deboli e indifesi.
Di fronte allo squallido scenario dei nuovi pubblicani di oggi, Giovanni Battista alzerebbe di nuovo la sua voce forte per denunciare e condannare: «Non ti è lecito!». Sì, non ti è lecito impadronirti delle risorse pubbliche, per soddisfare la tua sete di potere e di guadagno. Non ti è lecito tradire la fiducia ricevuta dai cittadini per impadronirti del loro risparmi e del loro lavoro. Non ti è lecito sciupare le risorse destinate ai più poveri per arricchirti in modo indebito e scandaloso.
Si parla tanto di crisi economica, ma dovremmo avere il coraggio di parlare anche di grave crisi di valori, di povertà culturale, di mancanza di senso della comunità, dell’uguaglianza, dell’onestà, del dovere, del rispetto e della parola data.
La vita quotidiana è fatta di impegno e di fatica, di onestà sul lavoro e di attenzione all’altro, di rispetto dell’ambiente e di ciò che è di uso pubblico.
Quale esempio stiamo dando ai nostri giovani? Che futuro stiamo preparando per loro? Che testimonianza e che modelli stiamo offrendo nel nostro vivere quotidiano?
In quest’epoca buia, si intravvedono tuttavia anche delle speranze. Sono le molte esperienze di chi continua a offrire testardamente la propria testimonianza di vita, fondandola non sul guadagno o sul prestigio, bensì sull’amore vero, nutrendosi di valori veri e autentici, senza chiedere nulla in cambio. Ci sono ancora moltissime persone che non hanno bisogno di auto blu e scorte per proteggersi, ma che sanno rischiare e donare gratuitamente la loro vita con e per i poveri, pagando di persona. Tra questi ci sono le migliaia di volontari, religiosi e religiose, che in modi diversi operano in quel mondo sempre più vasto che ci sta accanto di persone deboli e vulnerabili.
Possa il Natale offrire ancora motivi di speranza e consolazione a tutti coloro che hanno smarrito la stella che voleva guidarci verso l’incontro con un Bambino nella grotta di Betlemme. E che gli angeli possano ancora cantare: «Pace agli uomini di buona volontà». Allora il Natale avrà ancora un significato vero per tutti noi.
Pubblicato il 19 dicembre 2012 - Commenti (0)
06 dic
In questi giorni si è nuovamente parlato di abolizione della schiavitù: un tema che sembra apparentemente anacronistico, soprattutto perché molti continuano ad associare a questo termine esclusivamente la tratta degli schiavi africani verso le Americhe.
Purtroppo, però, nuove forme di schiavitù sono ancora ben presenti nel mondo, nonostante l’approvazione, il 2 dicembre 1949, da parte dell’Assemblea generale Onu, della Convenzione sulla soppressione del traffico di persone e lo sfruttamento della prostituzione altrui.
La schiavitù tuttavia è un fenomeno che non appartiene al passato, perché sotto forme diverse, spesso circondate da opportunismo e indifferenza, dilaga e prospera ancora oggi, sia nei Paesi in via di sviluppo, sia nelle nazioni che si definiscono democratiche e magari hanno sottoscritto la stessa Convenzione del 1949.
Ancora oggi, nel 2012, la compravendita di esseri umani rappresenta business enorme gestito da mafie internazionali e transnazionali che riforniscono il mercato di braccia e corpi per il lavoro nero, l’accattonaggio, la prostituzione, le adozioni illegali, la porno-pedofilia e il trapianto illegale di organi.
L’abolizione della tratta transatlantica degli schiavi nel XIX secolo non ha sradicato la pratica dello schiavismo a livello mondiale. Al contrario, questa pratica ha assunto altre forme, che persistono tuttora: la proprietà di esseri umani, la sottomissione tramite il meccanismo della restituzione del debito, il lavoro forzato, la tratta di donne e minori, la schiavitù domestica e la prostituzione forzata, inclusa quella minorile; ma anche la schiavitù sessuale, i matrimoni forzati e la vendita delle mogli; il lavoro e la servitù minorile.
Tutte forme di schiavitù che tengono incatenate tante persone con i loro problemi e le loro difficoltà come pure tante famiglie e intere popolazioni, schiavizzate e soggiogate dai molti che speculano sulle loro situazioni di povertà.
È importante quindi affrontare il fenomeno nella sua complessità e non illudersi di sradicare la schiavitù, combattendola solo nei luoghi ormai noti dove si predano esseri umani semplicemente perché non hanno alternative.
Questo richiede una presa di coscienza collettiva, solidale, globale e responsabile, che coinvolga istituzioni ed enti affinché si arrivi a spezzare tutti gli anelli della terribile catena di tutte le forme di schiavitù e dipendenza.
Queste nuove forme di schiavitù allontanano sempre più il Nord dal Sud del mondo, i Paesi ricchi da quelli impoveriti dai nostri stessi sistemi di vita e di sfruttamento, nonché le stesse classi sociali all’interno anche dei nostri Paesi, dove si allarga la forbice tra chi è sempre più ricco e avido di guadagno ad ogni costo e di chi non sa come vivere.
Nel preambolo della Convenzione sulla soppressione del traffico di persone e lo sfruttamento della prostituzione altrui del 1949, si mette in particolar modo in evidenza il fatto che «la prostituzione e il male che l’accompagna, vale a dire la tratta degli esseri umani ai fini della prostituzione, sono incompatibili con la dignità ed il valore della persona umana e mettono in pericolo il benessere dell'individuo, della famiglia e della comunità».
Purtroppo non basta una Convenzione, sia pure molto importante, per abolire la schiavitù e tutte le sofferenze e i mali a essa collegati, se non c’è la convinzione che ogni persona ha diritto alla propria dignità e possibilità di scelta e di decisione della propria vita e del proprio futuro e non può essere mercanteggiata come una qualsiasi merce e tantomeno privata del necessario per vivere.
Doris, una nigeriana sedicenne, che avevo incontrato all’inizio del mio servizio alla Caritas di Torino, mi raccontò come riuscì a fuggire dal luogo dove era tenuta prigioniera e, aiutata dalla Polizia, portata in una delle nostre case di accoglienza. Doris raccontò di uomini e donne nigeriane che si riunivano per selezionare le giovani immigrate clandestine appena giunte in Italia per avviarle alla prostituzione.
Le giovani donne dovevano mostrarsi su un tavolo completamente nude. Qui venivano selezionate e vendute all’asta; il costo variava dai 20 ai 50 milioni di lire ognuna, secondo l’età, la bellezza, il livello di educazione e la prestanza fisica. Dopo la vendita, le ragazze venivano portate via dai nuovi proprietari e tenute imprigionate in una casa, sotto la sorveglianza delle madam, che le controllavano e prelevavano tutti i proventi della strada per saldare il loro debito.
Nel primo libro scritto con Anna Pozzi (ed. San Paolo 2010), intitolato significativamente “Schiave”, abbiamo voluto raccogliere molte di queste storie e molti spunti di riflessione per far capire che cosa vuol dire la schiavitù moderna. I molti racconti di tante giovani vittime ci ricordano che la schiavitù è purtroppo ancora presente in mezzo a noi. E dunque siamo tutto chiamati a mobilitarci insieme, lavorando in rete affinché, con il contributo di tutti, si possano spezzare gli anelli di questa catena.
Pubblicato il 06 dicembre 2012 - Commenti (0)
25 nov
In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre vorrei condividere alcune riflessioni e commenti non solo per quanto riguarda la violenza fisica, sempre presente in molte forme, ma soprattutto la violenza psicologica, che distrugge la parte più intima e cara di ogni donna, e causa traumi spesso difficili da rimarginare.
È certamente impressionante il primato italiano del cosiddetto “femminicidio”.
Dall’inizio di gennaio sino al 25 ottobre di quest’anno si contano ben 101 donne uccise, in maggioranza da familiari o all’interno delle mura domestiche. Ma quali le cause di una simile violenza? Che cosa scatena nell’uomo la decisione di distruggere la donna che diceva di amare e di cui cercava di impossessarsi ad ogni costo?
Purtroppo la cultura che sta dilagando nella nostra società non è più basata sul rispetto per l’altro, sul dialogo e la donazione reciproca che aiuta a crescere e a essere coscienti delle proprie potenzialità e dei propri limiti. Troppo spesso, anche nella relazione, si cerca solo il proprio interesse e il soddisfacimento dei propri istinti a ogni prezzo.
Se tutto questo viene vissuto in una società che si dice emancipata e tra persone che si considerano “normali”, che cosa si può dire di tutte quelle donne che vivono ai margini e nel sommerso, che non contano perché non hanno un nome, una famiglia e non godono di legalità e sicurezza? Mi riferisco, in particolare, al mondo delle donne immigrate, a quelle della notte e della strada: donne che non esistono e non contano niente, che non possono vantare diritti e chiedere protezione, perché sono clandestine e perché non hanno legami familiari, perché sono sfruttate e perché vittime di abusi e soprusi. Non sono nessuno e se esistono è solo perché altri possono approfittarsene.
In tanti anni di lavoro a contatto con queste donne immigrate e sfruttate, specialmente per l’industria del sesso a pagamento, sia sulle strade di notte che nelle case e nei club, ho incontrato tantissime storie di violenze fisiche e traumi psicologici raccapriccianti.
Tra i tanti casi seguiti ricordo c’è quello di una giovane rumena, che si è lanciata dalla finestra del bagno del terzo piano per sfuggire allo stupro di un branco di suoi connazionali che volevano costringerla a prostituirsi in strada. Non è morta e ne è uscita con le ossa fracassate, solo perché è caduta su un prato e non sull’asfalto della strada.
In una gelida notte invernale, un gruppo di tre nigeriane si scaldavano attorno a un fuocherello improvvisato, quando alcuni giovani hanno lanciato da una macchina una lattina di carburante. Le tre ragazze hanno preso fuoco. Una di loro ha riportato l’ustione del 60 per cento del suo corpo già martoriato dagli stenti e dalla povertà. Quanti anni e quante cure sono state necessarie per recuperare quel corpo sfigurato, ma soprattutto per aiutarla a riappropriarsi della sua identità, dignità e senso di sicurezza?
Un’altra ragazza ancora, già sul lettino di un ambulatorio per un aborto clandestino, ha avuto il coraggio di chiamare di nascosto con il cellulare la polizia che è arrivata in tempo per salvarla dall’uccisione di quel bambino che portava in grembo. È andata invece molto peggio a una giovane uccisa recentemente a Palermo, nascosta seminuda dietro un cassonetto d’immondizie, trattata lei stessa da spazzatura da sgomberare.
La lista delle storie potrebbe essere ancora lunghissima, anche se poco o nulla viene rilanciato dai media. E così queste donne continuano a essere trattate solo come una merce “usa e getta”. Eppure anche loro sono persone, con i loro sogni e le loro aspirazioni, con il desiderio di un futuro più umano in cui uomini e donne possono e devono contribuire a costruire una società e una cultura di rispetto e non semplicemente di guadagno o di sfruttamento.
Pensando poi alla violenza psicologica sulle donne non posso far a meno di menzionare i tanti casi di disturbi mentali, riscontrati specialmente in molte donne nigeriane, che vivono con l’incubo della ritorsione sulla famiglia, causata dai riti woodoo (riti di magia nera) a cui devono sottoporsi prima di lasciare il loro Paese. Riti che si portano dentro e che esercitano su di loro una terribile violenza psicologica, che in molti casi distrugge qualsiasi capacità di scelta.
Che dire poi delle tante donne immigrate di diverse nazionalità che ogni sabato insieme a un gruppo di religiose di diversi Paesi visitiamo presso il Centro di identificazioni ed espulsione (CIE) di Ponte Galeria?
Il loro vivere quotidiano privo di qualsiasi attività, in un luogo squallido e senza vita, fatto solo di cemento e sbarre, mi riempie il cuore di tanta tristezza e anche di tanta rabbia. Possibile che non si possano trovare soluzioni alternative a una legislazione che considera l’immigrato senza documenti come un criminale da rinchiudere dietro le sbarre per 18 mesi?
Per queste giovani donne perdere senza motivo 18 mesi della loro giovinezza è davvero un crimine contro l’umanità; è un’ulteriore violenza, dopo le tante altre che hanno subito e che hanno marcato profondamente la loro vita. Ricordo una giovane donna che ho trovato seduta sul letto con le gambe incrociate che fissava nel vuoto senza riuscire a comunicare con nessuno. Veniva dalla Mongolia e non parlava né l’inglese né tantomeno l’italiano. Era completamente assente e isolata, chiusa in un mondo di solitudine e disperazione. La mancanza di comunicazione è davvero una delle forme più terribili di violenza psicologica, giacché la persona è per sua natura fatta per comunicare ed essere in relazione.
La presenza delle religiose, che ogni sabato visitano questo “santuario della sofferenza umana” per incontrare donne di diverse nazionalità e portare a loro una parola di affetto e di conforto, vuole andare incontro a questo bisogno di comunicazione e offrire a queste giovani una vicinanza perché possano ritrovare la voglia di vivere, nonostante il buio e l’isolamento.
Pubblicato il 25 novembre 2012 - Commenti (3)
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