In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre vorrei condividere alcune riflessioni e commenti non solo per quanto riguarda la violenza fisica, sempre presente in molte forme, ma soprattutto la violenza psicologica, che distrugge la parte più intima e cara di ogni donna, e causa traumi spesso difficili da rimarginare.
È certamente impressionante il primato italiano del cosiddetto “femminicidio”.
Dall’inizio di gennaio sino al 25 ottobre di quest’anno si contano ben 101 donne uccise, in maggioranza da familiari o all’interno delle mura domestiche. Ma quali le cause di una simile violenza? Che cosa scatena nell’uomo la decisione di distruggere la donna che diceva di amare e di cui cercava di impossessarsi ad ogni costo?
Purtroppo la cultura che sta dilagando nella nostra società non è più basata sul rispetto per l’altro, sul dialogo e la donazione reciproca che aiuta a crescere e a essere coscienti delle proprie potenzialità e dei propri limiti. Troppo spesso, anche nella relazione, si cerca solo il proprio interesse e il soddisfacimento dei propri istinti a ogni prezzo.
Se tutto questo viene vissuto in una società che si dice emancipata e tra persone che si considerano “normali”, che cosa si può dire di tutte quelle donne che vivono ai margini e nel sommerso, che non contano perché non hanno un nome, una famiglia e non godono di legalità e sicurezza? Mi riferisco, in particolare, al mondo delle donne immigrate, a quelle della notte e della strada: donne che non esistono e non contano niente, che non possono vantare diritti e chiedere protezione, perché sono clandestine e perché non hanno legami familiari, perché sono sfruttate e perché vittime di abusi e soprusi. Non sono nessuno e se esistono è solo perché altri possono approfittarsene.
In tanti anni di lavoro a contatto con queste donne immigrate e sfruttate, specialmente per l’industria del sesso a pagamento, sia sulle strade di notte che nelle case e nei club, ho incontrato tantissime storie di violenze fisiche e traumi psicologici raccapriccianti.
Tra i tanti casi seguiti ricordo c’è quello di una giovane rumena, che si è lanciata dalla finestra del bagno del terzo piano per sfuggire allo stupro di un branco di suoi connazionali che volevano costringerla a prostituirsi in strada. Non è morta e ne è uscita con le ossa fracassate, solo perché è caduta su un prato e non sull’asfalto della strada.
In una gelida notte invernale, un gruppo di tre nigeriane si scaldavano attorno a un fuocherello improvvisato, quando alcuni giovani hanno lanciato da una macchina una lattina di carburante. Le tre ragazze hanno preso fuoco. Una di loro ha riportato l’ustione del 60 per cento del suo corpo già martoriato dagli stenti e dalla povertà. Quanti anni e quante cure sono state necessarie per recuperare quel corpo sfigurato, ma soprattutto per aiutarla a riappropriarsi della sua identità, dignità e senso di sicurezza?
Un’altra ragazza ancora, già sul lettino di un ambulatorio per un aborto clandestino, ha avuto il coraggio di chiamare di nascosto con il cellulare la polizia che è arrivata in tempo per salvarla dall’uccisione di quel bambino che portava in grembo. È andata invece molto peggio a una giovane uccisa recentemente a Palermo, nascosta seminuda dietro un cassonetto d’immondizie, trattata lei stessa da spazzatura da sgomberare.
La lista delle storie potrebbe essere ancora lunghissima, anche se poco o nulla viene rilanciato dai media. E così queste donne continuano a essere trattate solo come una merce “usa e getta”. Eppure anche loro sono persone, con i loro sogni e le loro aspirazioni, con il desiderio di un futuro più umano in cui uomini e donne possono e devono contribuire a costruire una società e una cultura di rispetto e non semplicemente di guadagno o di sfruttamento.
Pensando poi alla violenza psicologica sulle donne non posso far a meno di menzionare i tanti casi di disturbi mentali, riscontrati specialmente in molte donne nigeriane, che vivono con l’incubo della ritorsione sulla famiglia, causata dai riti woodoo (riti di magia nera) a cui devono sottoporsi prima di lasciare il loro Paese. Riti che si portano dentro e che esercitano su di loro una terribile violenza psicologica, che in molti casi distrugge qualsiasi capacità di scelta.
Che dire poi delle tante donne immigrate di diverse nazionalità che ogni sabato insieme a un gruppo di religiose di diversi Paesi visitiamo presso il Centro di identificazioni ed espulsione (CIE) di Ponte Galeria?
Il loro vivere quotidiano privo di qualsiasi attività, in un luogo squallido e senza vita, fatto solo di cemento e sbarre, mi riempie il cuore di tanta tristezza e anche di tanta rabbia. Possibile che non si possano trovare soluzioni alternative a una legislazione che considera l’immigrato senza documenti come un criminale da rinchiudere dietro le sbarre per 18 mesi?
Per queste giovani donne perdere senza motivo 18 mesi della loro giovinezza è davvero un crimine contro l’umanità; è un’ulteriore violenza, dopo le tante altre che hanno subito e che hanno marcato profondamente la loro vita. Ricordo una giovane donna che ho trovato seduta sul letto con le gambe incrociate che fissava nel vuoto senza riuscire a comunicare con nessuno. Veniva dalla Mongolia e non parlava né l’inglese né tantomeno l’italiano. Era completamente assente e isolata, chiusa in un mondo di solitudine e disperazione. La mancanza di comunicazione è davvero una delle forme più terribili di violenza psicologica, giacché la persona è per sua natura fatta per comunicare ed essere in relazione.
La presenza delle religiose, che ogni sabato visitano questo “santuario della sofferenza umana” per incontrare donne di diverse nazionalità e portare a loro una parola di affetto e di conforto, vuole andare incontro a questo bisogno di comunicazione e offrire a queste giovani una vicinanza perché possano ritrovare la voglia di vivere, nonostante il buio e l’isolamento.
Pubblicato il 25 novembre 2012 - Commenti (3)