Don Sciortino

di Suor Eugenia Bonetti

Missionaria della Consolata, è stata per 24 anni in Kenya. Dal 2000 è responsabile dell'Ufficio tratta dell'Unione superiori maggiori italiane (Usmi). Coordina una rete di 250 suore di 70 diverse congregazioni, che operano in più di cento case di accoglienza. Il presidente Ciampi l'ha nominata Commendatore della Repubblica italiana.

19
giu

18 mesi nei Cie, una vergogna

n questo momento, il mio pensiero va in modo particolare alle donne di Ponte Galeria, dove tutti i sabati pomeriggio cerchiamo di portare una presenza di conforto e consolazione.  Da molti anni, con un gruppo di religiose di varie nazionalità, visitiamo la sezione femminile di questo Cento di identificazione ed espulsione vicino a Roma. Qui, molte donne vittime di tratta si trovano rinchiuse con l’unica colpa di essere prive di documenti.

     Purtroppo in questi giorni una nuova normativa prevede di prolungare la loro permanenza in questi centri da 6 a 18 mesi. Questo mi sconcerta e mi indigna. E spero che molti altri lo facciano con me. Con noi. Giacché, ancora una volta, le stesse vittime di questo sfruttamento vergognoso legato al traffico di esseri umani per la prostituzione sono quelle che pagano il prezzo più alto di decisioni e politiche ingiuste, che confondono le vittime con i criminali. Mentre coloro che le trafficano oppure le cercano e le usano rimangono impuniti e forse protetti dalla stessa legge. Diciotto mesi di detenzione! È un’ingiustizia, una violazione dei diritti umani di queste persone, una vergogna, contro cui dovremmo tutti mobilitarci.

Pubblicato il 19 giugno 2011 - Commenti (0)
23
mag

Suor Patricia e suor Monika in Italia

Suor Monika, impegnata contro la tratta delle donne africane.
Suor Monika, impegnata contro la tratta delle donne africane.

Venerdì 20 maggio, suor Patricia Ebegbulem, religiosa nigeriana, responsabile della rete Africa delle religiose contro il  traffico di esseri umani per lo sfruttamento sessuale, è intervenuta all’uUniversità americana di Roma durante la cerimonia di laurea. La testimonianza che ha portato è quella di una donna che vive dall’interno il dramma di molte sue connazionali trafficate all’estero e specialmente nel nostro Paese, per essere vendute sulle strade, ad uso e consumo dei clienti italiani del sesso a pagamento.

      «Nonostante il commercio degli schiavi sia stato abolito nel diciannovesimo secolo, continua a far emergere la sua terribile testa attraverso il traffico di donne per lo sfruttamento sessuale promosso da qualche genio diabolico. Un sistema in cui le donne e le ragazze sono vendute e comprate allo scopo di fornire soddisfazione sessuale a clienti paganti». Suor Patricia lavora coraggiosamente contro questo traffico in Nigeria, Paese da cui provengono migliaia di ragazze sfruttate in Italia. Ma ha una lunga esperienza di insegnamento e di direzione di scuole. Conosce l’importanza di formare le nuove generazioni. Per questo, ha realizzato un manuale sul traffico di esseri umani per lo sfruttamento sessuale da diffondere nelle scuole superiori della Nigeria. Uno strumento importantissimo per sensibilizzare i giovani e prevenire questo tragico e vergognoso traffico.

     In queste settimane, suor Patricia ha avuto la possibilità di visitare, insieme a un’altra suora nigeriana, suor Monika, diverse comunità di accoglienza di religiose italiane sparse nel nostro Paese. E ha conosciuto in presa diretta l’orribile esperienza della strada di notte. Ha visto il peggio dello sfruttamento e il meglio del loro recupero. Ha vissuto la sofferenza di queste donne distrutte dall’umiliazione della strada, ma anche la gioia di vedere la loro rinascita. E ha potuto apprezzare l’impressionate lavoro di accoglienza che viene svolto nelle comunità di religiose italiane. Uno dei suoi commenti, nei vari incontri a cui ha partecipato, è stato molto duro, ma anche emblematico del sentimento di disagio, sofferenza e indignazione vissuti. «Entrando nelle vostre case, qui in Italia, ho visto che avete tanta cura dei vostri animali domestici. Quanto vorrei che anche le nostre ragazze fossero trattate almeno come loro».

     Purtroppo queste donne, costrette a prostituirsi sulle nostre strade, continuano a essere trattate peggio delle bestie, a soffrire e a morire, senza volto, senza nome, senza casa e senza patria. Durante la loro visita in Italia, le due religiose nigeriane hanno incontrato anche molte ragazze minorenni, che hanno ritrovato in loro altrettante madri, pronte ad aiutare loro e le loro famiglie contro le ritorsioni dei trafficanti e degli sfruttatori. Infine, le due religiose parteciperanno a un incontro internazionale per rafforzare ancora di più il lavoro in rete tra Paesi di origine, transito e destinazione. È organizzato dalla “rete delle reti”, nata nel 2009 e chiamata Talita Kum, su iniziativa dell’Unione delle superiore generali internazionale (Uisg), di cui l’Usmi è parte. Un ulteriore passo per combattere tutti insieme questo vergognoso traffico.    

Pubblicato il 23 maggio 2011 - Commenti (0)
09
mag

Becky, da prostituta a mamma

Beky ha 22 anni e da due vive in Italia. È una delle tante ragazze africane costrette alla prostituzione sulle strade del nostro Paese. Il disprezzo, l’umiliazione e l’emarginazione fanno parte della sua esperienza quotidiana. Sin da quando è arrivata in Italia ha la sensazione di non essere più nessuno: non ha né documenti né un nome, non ha famiglia né amici. L’unica cosa che sa è che la sua vita vale per quello che riesce ad incassare; perciò deve guadagnare molto per pagare il “debito” di 60 mila euro che i trafficanti le hanno imposto.

     Da qualche mese, tuttavia, qualcosa è cambiato. Beky ha scoperto di essere incinta. La prima reazione è stata di sorpresa e di paura: che cosa fare? Ai suoi sfruttatori non piace certo l’idea che per nove mesi rimanga senza guadagnare. Con forti minacce vogliono costringerla ad abortire. Nella mente di Beky emergono i ricordi del suo Paese, della sua famiglia, della sua cultura. Quella gravidanza non aspettata riaccende nel suo cuore un sentimento di dignità che pensava fosse totalmente estinto. Nella cultura della sua terra essere madre è l’espressione più alta dell’essere donna. E così nasce in lei il desiderio di rischiare tutto pur di tenere la sua creatura. Con quel bambino rinasce in lei l’orgoglio di essere donna e donna africana.

     Prendere questa decisione tuttavia non è facile: c'è la consapevolezza di essere da sola in un Paese straniero, la paura di coloro che controllano le schiave della prostituzione, la mancanza di contatto con la famiglia in Africa. Beky si rivolge a un Centro di ascolto della Caritas e le viene proposta l’accoglienza in una casa-famiglia, gestita da religiose. dove avrebbe trovato aiuto e protezione per lei e per il suo bambino. Casi simili sono molto frequenti in Italia. Negli ultimi anni molte donne, specie africane, sono riuscite a sfuggire ai loro sfruttatori chiedendo aiuto alle comunità di accoglienza pur di non perdere il loro bambino. La donna in Africa, pur nella sua grande povertà, mantiene forte il senso della dignità femminile, vissuta nell’altruismo, nel sacrificio e nella dedizione alla propria famiglia.

     La vita della donna africana è basata su tre pilastri, come tre sono le pietre del fuoco su cui cucina: Dio, la comunità e la famiglia. Per le africane, dunque, la maternità è qualcosa di essenziale alla femminilità, in fondo è ciò che caratterizza il loro essere donna. In Italia ci sono molte case che accolgono ragazze disposte a lasciare la strada. Ma questi sono soltanto luoghi di passaggio provvisori, perché l’obiettivo è quello l'integrazione della madre e del bambino nella società. La donna deve sentirsi accolta per essere a sua volta capace di accogliere la propria creatura. Con la maternità queste ragazze che hanno sperimentato tante sofferenze e hanno perso quasi totalmente il senso della propria  identità e dignità, ritrovano il loro valore come donna. L’essere madre regala loro la gioia di donarsi agli altri, fondamentale nella loro cultura.

     Emblematico quello che mi disse una volta una giovane madre nigeriana: «Grazie suora! Se non fosse stato per il vostro aiuto, ora, non soltanto mio figlio non sarebbe vivo, ma non ci sarei stata più nemmeno io». E tutto questo fa parte di una maternità condivisa a tanti livelli perché continua a promuovere la vita, a generare vita e a custodire il grande dono della vita che è sempre dono di Dio per la nostra umanità. E mentre ricordo il dono di mia madre con la sua dolcezza e fermezza non posso non ricordare le tante “madri” missionarie che ho incontrato nella mia vita in Africa e che mi hanno insegnato con il loro esempio che ogni donna è chiamata a generare vita, a portare vita, a far crescere e a proteggere la vita. Ed è stato proprio in Africa che ho imparato a donare vita e a vivere in pienezza il dono della fecondità e della maternità.

     Le donne africane, che incontriamo sulla strada o nelle nostre case di accoglienza, ci chiamano semplicemente “mama”, giacché la religiosa ricorda loro la presenza della madre alla quale confidare preoccupazioni e difficoltà e con cui condividere gioie, speranze e sogni per un futuro diverso. Per la donna africana la maternità è considerata la più grande ricchezza e il sogno più bello che porta nel cuore anche quando vive l’esperienza dello sfruttamento sulla strada con i rischi, le paure e le sofferenze che comporta. L’esperienza drammatica delle ragazze straniere sulle strade italiane è terribile, ma a volte la maternità, anche se frutto di violenza, può diventare la chiave per verso il riscatto e la liberazione.  

Pubblicato il 09 maggio 2011 - Commenti (2)
03
mag

Aprire le porte a Cristo

Dopo la grande manifestazione di affetto, gioia ed emozioni che ha caratterizzato la giornata di domenica primo maggio per la beatificazione del grande Papa, Giovanni Paolo II - dove l’accorato grido all’inizio del suo pontificato ha continuato a riecheggiare in tutto il mondo - ho avuto modo di cogliere ancora una volta questo suo grido che desidero trasmettere a tutti voi, amici e sostenitori del nostro servizio alla dignità della persona, come il grande Papa aveva sempre annunciato e promosso.

     Stamane, prima di partire per la Sardegna per iniziare un lungo e intenso mese di maggio in varie parti d’Italia, insieme a due suore nigeriane con le quali collaboriamo da molto tempo, ho avuto modo di entrare, molto discretamente, nella Basilica di San Pietro e soffermarmi a lungo di fianco a quella bara scarna ma eloquente per intessere un dialogo affettuoso con il Padre e Maestro della mia vita e di quella di milioni di fedeli.

     Nel silenzio e alla presenza di quella bara ho rivisto la mia missione sulle strade del mondo come ha fatto Lui in tanti anni di servizio instancabile; ho pure rivisto tutte le persone che ho incontrato e aiutato come pure le molte altre che ci sono state compagne di viaggio per alleviare le sofferenze di tante persone.

     In modo speciale ho ricordato voi cari amici e amiche, lettori di Famiglia Cristiana, impegnati ad essere come Lui strumenti di verità di armonia, di pace, di solidarietà. Quel suo invito ad aprire le porte a Cristo è riecheggiato fortemente nel mio cuore e desidero trasmetterlo anche a voi affinché ogni persona che incontreremo possa entrare e scoprire il volto vero di Cristo risorto, unico salvatore del mondo. Per voi tutti ho chiesto dalla finestra del paradiso la sua paterna benedizione.

Pubblicato il 03 maggio 2011 - Commenti (1)
24
apr

Pasqua a Ponte Galeria

UJn'immagine scattata nel Cie di Ponte Galeria.
UJn'immagine scattata nel Cie di Ponte Galeria.

Dal mese di marzo del 2003, un gruppo di religiose di diverse congregazioni e provenienti da vari Paesi - e dunque con differenti lingue materne - ogni sabato pomeriggio visita il Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria, nei pressi di Roma, che può ospitare circa 180 donne in attesa di rimpatrio perché senza documenti.

     Da parecchi mesi suor Giulia, una giovane religiosa nigeriana, era parte di questo gruppo organizzate dall’Ufficio “Tratta donne e minori” dell’USMI. Durante un raduno della sua congregazione, la Madre Generale le chiede di condividere il servizio che svolge tra queste donne immigrate in attesa di espulsione. Suor Giulia risponde semplicemente: «Madre, a Ponte Galeria noi facciamo come Maria sotto la Croce». Alla domanda di ulteriore spiegazione suor Giulia aggiunge che anche noi, come Maria, non riusciamo a cambiare la situazione di tante donne che vivono l’esperienza della sofferenza e della croce perché non vogliono tornare a casa a mani vuote, costrette a vivere il fallimento del loro progetto migratorio iniziato per aiutare la famiglia. Ma anche noi siamo lì, tutti i sabati, per offrire una presenza materna di conforto.

     Nei tanti luoghi di dolore, creati dall’uomo stesso, come lo fu il Calvario, anche il silenzio e la presenza possono avere un valore umano e cristiano. Allora ha senso che il Venerdì Santo 2011, uniti a tutti i crocifissi della storia e della società, una ventina di religiose abbia passato i cancelli e i controlli carcerari per ripercorrere con le oltre cento donne di diverse nazionalità, attualmente presenti nel Centro di Ponte Galeria, il cammino della Via Crucis.

     Per coinvolgerle abbiamo preparato una riflessione di sei stazioni, una lingua per ogni stazione, dove le donne si alternano nelle letture, nei canti e nelle preghiere. La venerazione e il bacio della croce è sempre un momento molto toccante e commovente, durante il quale le donne entrano in sintonia con la sofferenza di quel Cristo che ha assunto su di sé ogni sofferenza, paura, abbandono e disprezzo, giacché lui ha vinto il mondo proprio attraverso la sua morte.

      Ma la morte non ha l’ultima parola. Al di là della sofferenza, del peccato e della morte stessa si intravede la gloria della resurrezione. Lui ha spezzato le catene di tutte le schiavitù, oppressioni, ingiustizie, discriminazioni e sfruttamenti di ogni tipo. E alla fine del percorso dei nuovi Colossei, creati anche oggi dai nostri stessi sistemi di vita, ci sarà l’incontro con il Risorto come lo è stato per la Maddalena, che lo cerca al sepolcro ormai vuoto. Si sente chiamata per nome, Maria, lo riconosce e lo chiama Maestro.

     A lei, come a tante altre donne che vivono situazioni di sofferenza ed esclusione, questo annuncio si ripete ed insieme viene dato loro il mandato di andare e annunciare che Lui non è morto ma vive. Il primo annuncio della resurrezione che ha sconvolto e cambiato il corso della storia dell’umanità viene dato proprio a una donna. Possa questo annuncio di speranza e liberazione realizzarsi per tutte le persone che soffrono e sperano in un futuro di pace e armonia dove i diritti e la dignità di ogni persona venga rispettata e valorizzata.

     Allora per tutti noi il Venerdì Santo è già preludio della Pasqua di Resurrezione ed insieme potremo annunciare che Cristo è Vivo ed è ancora presente in mezzo a noi.

     A tutti i lettori gli auguri più sinceri e cordiali di Buona Pasqua.

Pubblicato il 24 aprile 2011 - Commenti (0)
13
apr

Quei migranti li conoscevo bene

Uno dei barconi di migranti in arrivo a Lampedusa.
Uno dei barconi di migranti in arrivo a Lampedusa.

Sentendo nei giorni scorsi la notizia terribile del naufragio di un’imbarcazione di migranti partita dalla Libia, con oltre duecento morti nelle acque del nostro Mediterraneo, non ho potuto che provare sconcerto e cordoglio. Mi ha colpito molto sapere che tra di loro c’era anche una donna somala incinta di otto mesi che si è salvata miracolosamente.

     Donne, uomini, ragazzi come questi, che hanno perso la vita mentre ne cercavano una migliore, li avevo conosciuti, poco più di un anno fa, proprio in Libia. E in particolare nelle prigioni di questo Paese, dove ha incontrato molti migranti subsahariani. Quando hanno sentito parlare dell’Italia si sono illuminati. Per loro il nostro Paese, o l’Europa più in generale, rappresentano la terra promessa, un sogno di libertà, emancipazione, progresso. Il sogno di una vita diversa.

     È un grande miraggio: non si rendono conto esattamente dei contorni e del caro prezzo che devono pagare. E che stanno già pagando. Spesso sono i trafficanti di esseri umani o altri migranti che, tornando in patria, esibiscono soldi, potere, ricchezza e contribuiscono ad alimentare questo sogno. Un sogno che coltivano anche all’interno di quelle prigioni, nonostante le orribili condizioni in cui sono costretti a vivere. Ma forse è proprio quel sogno che li aiuta a non lasciarsi andare e a non perdere la speranza in una vita diversa. La nostra rete di religiose che è presente anche in Libia, sta cercando offrire assistenza e accompagnamento specialmente alle donne che arrivano in questo Paese attraverso il deserto del Sahara, molte delle quali in stato di gravidanza e bisognose di tutto, dall’alloggio all’assistenza sanitaria, o per aiutarle, in alcuni casi, a tornare indietro, a casa loro.

     Ma anche qui in Italia dobbiamo ancora lavorare molto per una cultura dell’accoglienza. E ancor prima per cambiare lo sguardo rispetto a queste persone: affinché non siano guardate e giudicate in prima istanza come “invasori”, clandestini, criminali o peggio ancora. Ma, appunto, come persone, esseri umani con la loro dignità.    

Pubblicato il 13 aprile 2011 - Commenti (0)
04
apr

Ricordando Giovanni Paolo II

In questi giorni si è tornati a parlare molto di Papa Giovanni Paolo II nell’anniversario della scomparsa (21 aprile) e in vista della sua beatificazione (primo maggio). Anch’io vorrei rendere omaggio a questo grande Padre e Maestro, ricordando con gratitudine il suo rispetto per ogni donna, quella forte e quella debole, quella emancipata e quella sfruttata.

Il suo insegnamento autorevole lo possiamo trovare in moltissimi documenti emanati durante il suo lungo pontificato, ma in modo particolare lo cogliamo nella Lettera apostolica “Mulieris Dignitatem” per l’Anno Mariano del 1988 in cui ci ricorda che: «La dignità della donna si collega intimamente con l'amore che ella riceve a motivo stesso della sua femminilità ed altresì con l'amore che a sua volta dona».

Nella “Lettera alle Donne” del 1995, in occasione della Conferenza di Pechino, dice: «Grazie a te, donna, per il fatto stesso che sei donna! Con la percezione che è propria della tua femminilità tu arricchisci la comprensione del mondo e contribuisci alla piena verità dei rapporti umani». Nella stessa Lettera non ha mancato di condannare fortemente chi vuole distruggere questa dignità: «È ora di condannare con vigore, dando vita ad appropriati strumenti legislativi di difesa, le forme di violenza sessuale che non di rado hanno per oggetto le donne. In nome del rispetto della persona non possiamo altresì non denunciare la diffusa cultura edonistica e mercantile che promuove il sistematico sfruttamento della sessualità, inducendo anche ragazze in giovanissima età a cadere nei circuiti della corruzione e a prestarsi alla mercificazione del loro corpo».

Giovanni Paolo II non solo ha insegnato con le parole il rispetto della dignità della donna, denunciando l’abuso e la mercificazione del corpo femminile, ma ha anche promosso gesti concreti di incontro con le vittime di questo sfruttamento. Diversi sono i ricordi che affiorano alla mia mente. Innanzitutto, l’incontro in piazza San Pietro, durante l’anno santo del grande Giubileo, con una giovane donna malata di Aids, accompagnata da don Oreste Benzi, e la carezza del Papa mentre lei lo supplicava di liberare dalla strada tutte le donne e particolarmente le minorenni.

Inoltre, voglio ricordare il Battesimo di una giovane mamma in San Pietro, durante una delle veglie pasquali, quando all’offertorio la donna ha presentato al Santo Padre la sua creatura, frutto di tanta violenza e sofferenza, ma anche di riscatto e liberazione; la bimba dormiva e il Papa cercava di scuoterle la testina per svegliarla, guardarla negli occhi e benedirla. Infine, l’incontro durante l’ultima udienza prima della malattia concessa a tre giovani vittime di tratta, accompagnate da una bambina, da un’operatrice e dalla sottoscritta.

Quella mano che toccava e benediceva, quegli occhi che fissavano i nostri volti erano più eloquenti delle parole che non riusciva più a pronunciare. Quest’ultimo incontro con la sua benedizione è stato per noi un testamento da custodire e tramandare. Ancora oggi ci piace ricordarlo come Padre e chiedergli che “dalla finestra del paradiso” continui a benedire, aiutare e consolare tutte le donne che ancora oggi e in tanti modi subiscono violenza, sfruttamento, disprezzo e umiliazione. Grazie Beato Giovanni Paolo II.

Pubblicato il 04 aprile 2011 - Commenti (1)
28
mar

Gli schiavi, vecchi e nuovi

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione del 17 dicembre 2007, ha proclamato il 25 marzo Giornata internazionale delle vittime della schiavitù e della tratta degli schiavi transatlantica. Un fenomeno unico nella storia dell’umanità, sia per la sua durata (dal XVI al XIX secolo, quattrocento anni), sia per la sua portata (circa 17 milioni di persone, esclusi i morti durante il trasporto) sia per il coinvolgimento di numerose regioni e continenti: Africa, America settentrionale e meridionale, Europa e Caraibi.

     Dopo molte campagne per l’abolizione di una simile deportazione durante il corso del XIX secolo quasi tutti i Paesi hanno aderito all’abolizione della schiavitù e del commercio degli schiavi. Nel 1926 con la Convenzione internazionale sulla schiavitù di Ginevra la Società delle Nazioni proibì il commercio di schiavi e condannò la schiavitù in tutte le sue forme. Nel 1948, nella Dichiarazione universale dei diritti umani la schiavitù venne nuovamente condannata ufficialmente.

     Possiamo quindi ammettere che la schiavitù e il commercio degli schiavi sia davvero abolito e rispettato? Tutt’altro. Ci troviamo, infatti, di fronte a una nuova forma di tratta di esseri umani creata dai nostri stessi meccanismi economici per soddisfare l’avidità di denaro, potere e piacere dei nuovi trafficanti di esseri umani. La tratta delle donne per la prostituzione forzata è una di queste: donne provenienti da Paesi in via di sviluppo trafficate e ridotte in schiavitù per l’industria del sesso.

     Oggi c’è una crescente presa di coscienza circa il fatto che la schiavitù esiste ancora in Europa alla fine del XXI secolo. Ma non è ancora abbastanza. Questa nuova forma di schiavitù, infatti, coinvolge moltissimi Paesi di origine, transito e destinazione, senza che esistano efficaci azioni di contrasto e prevenzione. Secondo stime attendibili, ogni anno 2.700.000 donne e minori vengono trafficati nel mondo, ossia venduti e comperati soprattutto per l’industria del sesso a pagamento; di questi, 500.000 solo in Europa.

     Anche l’Italia fa la sua parte in questo sporco business: nel nostro Paese, infatti, ci sarebbero dalle 50 alle 70 mila vittime di tratta, provenienti in maggior parte dalla Nigeria e dai Paesi dell’Est europeo. Le nigeriane, in particolare, vengono costrette alla prostituzione attraverso le minacce e il voodoo (riti di magia nera che le violenta e le assoggetta psicologicamente), mentre le altre sono ridotte in schiavitù attraverso forme di assoggettamento psicologico e affettivo, oltre che con la violenza.

     Ancora oggi, tante donne continuano a perdere, oltre alla loro dignità e identità, la loro stessa vita. Uno degli ultimi casi di cui ho dovuto occuparmi è quello di Blessing, madre di tre bambini uccisa per essersi ribellata agli sfruttatori e aver rifiutato di pagare un “debito” di 40 mila euro, contratto a sua insaputa prima di venire in Italia. «Mai più schiave!» vuole essere il nostro costante grido e impegno di donne che aiutano a liberare altre donne, giacché ogni persona è stata pensata e creata da Dio con la sua dignità e libertà.    

Pubblicato il 28 marzo 2011 - Commenti (0)
21
mar

Donne per l’unità d’Italia

Tre bandiere tricolore - che rappresentano i tre giubilei del 1911, 1961 e 2011 in un collegamento ideale tra le generazioni - costituiscono il logo dell’anniversario che abbiamo celebrato il17 marzo in tutta Italia e anche all’estero per molti italiani emigrati per lavoro o per studio. Queste tre bandiere ci ricordano la necessità di ritrovarci popolo, di riconoscerci comunità nazionale e, allo stesso tempo, cittadini europei, non come rifugio in ciò che è già avvenuto, ma come occasione per il Paese di riscoprire la propria identità e il proprio modo più autentico di essere, di crescere e di continuare il cammino intrapreso.

Abbiamo celebrato un anniversario molto importante e significativo: i 150 anni dell’unità d’Italia, la nostra Madre Patria che in tutti questi anni ha generato figli e figlie, che in modi diversi hanno contribuito allo sviluppo del Paese. Personalità che si sono distinte nel campo della politica, della cultura, della scienza, dell’arte, della musica, della solidarietà…: persone che hanno portato il buon nome dell’Italia nel mondo intero.

In tutti questi anni il nostro Paese è emerso con coraggio e determinazione da tante vicissitudini di povertà e conflitti. Questo non solo per la presenza di persone che hanno fatto “storia”, ma soprattutto per la capacità di tanta gente comune che, giorno dopo giorno, ha fatto conoscere il volto e il nome della nostra patria sulla scena politica, economica, sociale e religiosa del mondo.

Tra questa gente, comune e laboriosa, mi piace oggi ricordare la presenza e il contributo delle donne, non solo di quelle che per le loro capacità si sono affermate affiancandosi al sesso maschile nei campi direttivi e di governo; vorrei ricordare piuttosto le donne di tutte le età ed estrazione sociale, che hanno creato nel loro quotidiano il vero tessuto sociale di questa nostra Patria, basato sui valori del lavoro, del rispetto e dell’onestà; sulla fedeltà, insomma, a quei valori autentici - umani e cristiani - che sono stati così trasmessi alle varie generazioni.

Vorrei ricordare prima di tutto le donne, così dette “casalinghe”, spose e madri, le quali con la loro laboriosità e tenacia sono state il cuore e la vita della famiglia, vissuta anche come “Chiesa domestica”, impegnate a formare ed educare ai valori della convivenza e della responsabilità sociale. Ricordo pure le donne che, pur conservando un ruolo preciso nella famiglia, hanno impegnato le loro capacità nel mondo del lavoro: nelle fabbriche, nelle scuole, negli ospedali, nelle comunità cristiane, portando ovunque quel tocco che le caratterizza nella femminilità, gentilezza, ospitalità e maternità.

Vorrei, inoltre, ricordare tutte quelle donne religiose che nei monasteri di clausura, nelle comunità di vita attiva e nelle missioni hanno fatto fiorire opere di solidarietà ed emancipazione, particolarmente a favore delle classi più svantaggiate e di persone in difficoltà. Di queste persone difficilmente si occupano i mezzi di comunicazione sociale, ma sono soprattutto loro che hanno contribuito a mantenere viva nella nostra società i valori portanti per una comunità equilibrata che sa unire il concreto con il trascendente, il privato con il pubblico, il particolare con il sociale, il benessere con la solidarietà e la condivisione.

A questo riguardo ringrazio la scrittrice e giornalista Maria Pia Bonanate per avere raccolto le storie di parecchie religiose e aver pubblicato il libro “Suore” (Ed. Paoline), dove le figure e le storie di diverse donne comuni, con il loro servizio, amore e donazione, senza interessi personali, senza mirare alla carriera, hanno fatto la differenza e hanno costruito una società dove le opere concrete scaturiscono dal cuore di donne. Donne che sono accanto a chi fa più fatica a vivere e a chi, forse, non è considerato “persona” con gli stessi diritti e la medesima dignità di ogni altra persona umana.

A tutte voi donne, forti o deboli, giovani o anziane, nei ruoli di governo o madri di famiglia, laiche o religiose giunga il mio augurio e l’invito ad essere sempre più consapevoli del nostro ruolo specifico di presenze di vita e armonia, fedeltà e accoglienza, pace e riconciliazione. Questo è ciò che l’Italia si aspetta da noi donne per la costruzione di una nazione, dove ogni persona non vale per ciò che produce, ma ciò per che è: essenzialmente “Persona” con diritti e doveri e soprattutto con la medesima dignità, perché creata ad immagine di Dio.

Pubblicato il 21 marzo 2011 - Commenti (0)
11
mar

La donna come merce "usa e getta"

Riprendo un tema che mi interroga molto nel mio lavoro quotidiano con donne vittime di tratta e costrette a vendere il proprio corpo: quello dell’immagine della donna e del suo ruolo nella società e nella famiglia che viene diffuso dai nostri media. In questi ultimi tempi si è cercato di eliminare la prostituzione di strada perché dava fastidio e disturbava i sedicenti benpensanti.

A abbiamo voluto rinchiuderla in luoghi meno visibili, pensando di aver risolto il problema, ma non ci rendiamo conto che una prostituzione del corpo e dell’immagine della donna è diventata ormai parte integrante dei programmi e notizie televisive, della cultura del vivere quotidiano e proposta a tutti, compresi quei bambini che volevamo e pensavamo di tutelare. Purtroppo l’immagine che viene trasmessa in tanti modi e forme dai media e dalla pubblicità è innanzitutto del corpo della donna inteso solamente come oggetto o strumento di piacere, di consumo e di guadagno, misconoscendo invece l'essenziale che lo stesso corpo umano racchiude: una bellezza infinita e profonda da scoprire, rispettare, apprezzare e valorizzare.

Le costanti notizie di cronaca che in queste ultime settimane si susseguono sui nostri giornali e nelle trasmissioni televisive e radiofoniche ci sgomentano e ci portano a pensare che siamo ancora molto lontani dal considerare la donna per ciò che è veramente e non semplicemente un oggetto o una merce da usare. Tutto questo purtroppo educa allo sfruttamento, al sopruso, al piacere, al potere, senza alcuna preoccupazione delle dolorose conseguenze sui nostri giovani che vedono modelli da imitare e mete da raggiungere.

La donna è diventata solo una merce che si può comperare, consumare per poi liberarsene come un qualsiasi oggetto “usa e getta”. Troppo spesso è considerata solo per la bellezza e l’aspetto esteriore del suo corpo e non invece per la ricchezza dei suoi valori veri di intelligenza e di bellezza interiore per la sua capacità di accoglienza, intuizione, donazione e servizio, per la sua genialità nel trasmettere l’amore, la pace e l’armonia, nonché nel dare e far crescere la vita.

Pubblicato il 11 marzo 2011 - Commenti (0)
06
mar

8 marzo: il senso di una festa

Tra i tanti commenti ricevuti in questi giorni uno mi è giunto anche da una suora di clausura che ho trovato particolarmente bello, profondo e ricco di riflessioni. Non riguarda solo la dignità della donna in generale, bensì parla del fatto che tale dignità deve essere prima di tutto riconosciuta e rispettata dalla donna stessa. La donna deve assumersi in prima persona la responsabilità di far emergere e rispettare la propria dignità. La donna deve diventare sempre più protagonista e artefice della sua vita e del suo futuro creando una convivenza equilibrata e armoniosa, portatrice ed educatrice di valori profondi per sé e poi per la società in cui vive.

Così scrive la claustrale: «Che le donne facciano sentire la loro voce e richiamino l’attenzione su quanto di loro si pensa, si dice e soprattutto si propaganda, per manifestare il loro dissenso e le loro ragioni, lo ritengo legittimo, ma nello stesso tempo spererei vivamente che la donna stessa abbia giusta consapevolezza della dignità che vuole affermare e idee chiare sulla sua identità e capacità di progettazione della propria vita. Cosa che, francamente, non mi sembra essere sempre certa nel nostro contesto sociale. Mi sembra infatti che essere donna, e donna emancipata, attualmente si identifichi il più delle volte con l’equiparazione di ruoli e poteri rispetto all’uomo. Tanto che non è raro sentire parlare di cifre sulla partecipazione femminile agli incarichi di rappresentanza o di alto livello a dimostrazione della sua posizione culturale ancora minoritaria. Ma il problema è a monte: se anche la donna giungesse ai vertici delle più brillanti carriere - cosa che cordialmente le auguro e talora, di fatto, già avviene - desidererei comunque che il suo modo di essere e di porsi fosse di timbro diverso, femminile appunto (il che non vuol dire inferiore, ma di altra qualità), arricchendo ogni ambito culturale, politico e sociale della sua specifica forma di umanità e sensibilità. Per il suo profondo rapporto con la vita, il suo intuito e la sua capacità di osservazione, per l’attenzione all’umano e le connaturali doti di generosità, la donna è infatti, a mio avviso, portatrice privilegiata di originalità, di innovazione e creatività, nonché di bellezza nel senso più filosofico ed estensivo del termine. In tutta sincerità non trovo convincenti né interessanti le donne che imitano la figura maschile mostrando una sicurezza talora aggressiva che indurisce il loro tratto, oppure ostentando una spregiudicatezza di comportamenti e di toni che le omologa a un modello quanto mai dissonante dal loro fondamento antropologico. Perché, tra l’altro, una delle questioni connesse al valore, o disvalore della donna oggi, è quella dello smantellamento di quella compostezza, o meglio pudore (parola obsoleta nella nostra cultura, se non all’indice) che custodisca ma anche sveli in certo senso il mistero profondo della persona».

Grazie sorella claustrale, donna pienamente realizzata e ricca di valori che hai condiviso con noi e con le tante donne che leggeranno queste riflessioni. A tutte le donne che festeggeranno l’8 marzo l’augurio di sperimentare la bellezza e la grandezza del proprio essere donne e madri di nuove generazioni di uomini e donne, che in piena sintonia vivono nel rispetto e apprezzamento reciproco per la costruzione di una nuova umanità così come è stata pensata e voluta dal Creatore.

Pubblicato il 06 marzo 2011 - Commenti (4)
25
feb

Incastrati nei cliché

Giornalisti all'attacco.
Giornalisti all'attacco.

Da quando ho partecipato alla manifestazione per la dignità della donna lo scorso 13 febbraio, non so più quante decine di richieste di interviste, analisi, commenti ho ricevuto. Televisioni, radio, riviste, quotidiani… Ho perso i conti! Capisco l’importanza della comunicazione. In questi anni, noi stesse, come ufficio “Tratta donne e minori” delle religiose italiane, abbiamo cercato di collaborare il più possibile con i media per far passare dei messaggi corretti, formando e informando sulle terribili conseguenze di questa nuova forma di sfruttamento che sta distruggendo non solo la vita di tante giovani immigrate, ma anche del nostro stesso tessuto sociale, specie la famiglia che ha perso il valore della fedeltà, del rispetto e della relazione interpersonale basato sull’amore conquistato e non mercanteggiato.

     Come donne e religiose, che ogni giorno vivono a fianco di tante donne ferite e umiliate, abbiamo cercato di far conoscere questo mondo della notte e della strada per dire che siamo tutti responsabili di questo disagio sociale e che solo lavorando insieme, ciascuno con le proprie competenze e responsabilità, questa schiavitù del XXI secolo può e deve essere debellata. Anche per questa ragione ho accettato questa nuova sfida di tenere un blog sul sito di Famiglia Cristiana. Un impegno che si aggiunge a molti altri - e dunque non senza fatica - ma che va in questa logica di comunicare per il bene (il bene della conoscenza) e per fare del bene (il bene dell’azione, dell’impegno per una causa giusta).

     Solo che a volte ho l’impressione che lo scopo dei media non sia né il bene né tanto meno la verità. Me ne sono resa conto personalmente in questi giorni in cui sono stata assalita da intervistatori di  tutti i tipi. A volte, avevo l’impressione che il giornalista non solo volesse pormi una domanda, ma avesse già in mente la risposta. Insistendo e provocando per farmi dire quello che aveva in mente lui o lei. Per “incastrarmi” dentro alcuni cliché ai quali potevo essere funzionale. O per portare il mio intervento su un piano più politico.

     Sapevo perfettamente che esponendomi alla manifestazione di domenica 13 avrei rischiato possibili strumentalizzazioni, in un momento così delicato per l'Italia. Ne abbiamo discusso a lungo anche all’interno delle nostre istituzioni di religiose per meglio capire e vagliare l’opportunità di questo intervento in piazza e cogliere questa nuova sfida. Questa scelta delicata e coraggiosa è stata poi sostenuta e accompagnata anche dalla preghiera di 60 monasteri di clausura, ai quali avevamo affidato questo intervento in pubblico a favore della dignità della donna.

     Ma come è possibile che i giornalisti non riescano a capire che non tutto può essere usato per fare polemica oppure buttato in politica? Non esistono forse altri valori, altre buone notizie da far conoscere, che stimolano al bene e formano all’emulazione positiva? Perché si usa così tanto spazio, tempo ed energie per far emergere solo tanta cronaca nera oppure lotte di parte che niente hanno a che fare con il vero bene e interesse dei cittadini? Di che cosa si nutrono e come si educano i nostri telespettatori?

Altra riflessione e domanda cruciale è quella relativa all’immagine della donna nel mondo dello spettacolo, della pubblicità, degli slogan. Ma perché noi donne non ci indigniamo di fronte a tanto scempio ma accettiamo tutto per scontato, contribuendo ad una cultura del piacere, dell’avere, dell’apparire, invece di scoprire l’armonia e la ricchezza interiore di ogni persona?

     Noi religiose, impegnate a contrastare il traffico di esseri umani per lo sfruttamento sessuale, chiediamo a voi giornalisti di aiutarci a far emergere non solo la cultura della bellezza e dell’uso del corpo, bensì la cultura del rispetto reciproco, basato sulla complementarietà e non sul possesso.

 

Pubblicato il 25 febbraio 2011 - Commenti (2)
19
feb

Dare voce a chi non ce l'ha

Suor Eugenia con una ragazza nigeriana.
Suor Eugenia con una ragazza nigeriana.

Mi scrive una signora, all’indomani della manifestazione del 13 febbraio a Roma: «Ho ascoltato il suo intervento a favore delle donne, in piazza del Popolo. Mi ha colpito molto! Non credevo che una suora potesse avere tanto coraggio e coerenza; indubbiamente il suo intervento ha fatto cambiare opinione a molti. A me personalmente di sicuro: miscredente, ex comunista, senza più fede politica, mai creduto in quella religiosa; tuttavia, oggi  il suo coraggio mi ha fatto nascere il desiderio di saperne di più. […] Ma lo sa che con il suo intervento ha aperto gli occhi, il cervello e il cuore a tanti di noi? Mi creda, ha seminato il bene meglio di tanti inascoltati, ripetitivi e pomposi sermoni cardinalizi. […] Lei ha parlato a migliaia di persone, di sinistra, politicizzate e sicuramente non di chiesa come mai nessun aveva fatto in passato».

     Sono moltissime le reazioni come questa, di persone lontane dalla Chiesa, che mi comunicano la loro vicinanza e la loro condivisione di quanto ho detto domenica scorsa. Così come sono moltissime le reazioni di amici, conoscenti, suore e tanti sconosciuti più vicini alla Chiesa. Gli uni e gli altri mi confermano che il senso della mia presenza e del mio intervento è stato capito, nonostante alcune critiche.

     Io, come tante altre religiose, cerco di attingere la genuinità della mia parola non dai teoremi astratti, ma dal vivere quotidianamente un impegno, a contatto con donne ferite, abusate e sminuite nella loro umanità. Noi religiose, che lavoriamo nel difficile e delicato settore della tratta di esseri umani per lo sfruttamento sessuale, non abbiamo mai voluto salire in cattedra per dare lezioni o fare proclami. Né tantomeno per fare politica o anche solo del semplice moralismo. Ma sempre, ovunque ce lo abbiano permesso, abbiamo cercato di far sentire la nostra voce, per denunciare questo vergognoso traffico e le condizioni di sfruttamento che rendono schiave migliaia di donne nel nostro Paese. E per dire che qualcosa si può e si deve fare per combatterlo e per dare una speranza di vita nuova alle vittime.

     L’occasione che mi è stata offerta domenica mi ha permesso di portare nuovamente la mia testimonianza, anche se in un contesto forse inconsueto. Ma il mio atteggiamento è stato quello di sempre: ovvero quello di chi si fa, con umiltà ma anche con determinazione, voce di chi non ce l’ha, cercando di rompere almeno un poco il muro dell’indifferenza.

Pubblicato il 19 febbraio 2011 - Commenti (2)
18
feb

Io, Suora, in piazza, il 13 febbraio 2011

Dopo il mio intervento in Piazza del Popolo, domenica scorsa, molte persone si sono domandate e me lo hanno anche scritto, perché io, suora e missionaria, sono scesa in piazza di fronte a migliaia di persone per condividere una riflessione sulla dignità della donna. La mia risposta è stata per tutti la stessa: offrire un segno concreto di vicinanza alla donna, in modo dignitoso e direi davvero profetico, per dare voce a diverse centinaia di religiose che ogni giorno operano silenziosamente e gratuitamente con amore, coraggio e determinazione per ridare vita e speranza a tante donne comprate, vendute e sfruttate. Donne la cui dignità e identità è stata violentata e umiliata.
Donne che mai avrebbero potuto far sentire la loro voce, perché ridotte in schiavitù e quindi senza volto, senza nome, senza diritti e libertà. Ero lì per dire “basta” alla mercificazione del corpo della donna e a questa enorme ipocrisia di chi non vede o non vuol vedere.

Molti - e specialmente i media - continuano a chiedermi come mi sono sentita in quella enorme piazza e come ho vissuta questa esperienza, una prima assoluta per una religiosa in un contesto eminentemente laico. Di fronte a quella folla di donne di diverse posizioni ed estrazione sociale, mi sono sentita una formichina che il Signore voleva usare per farne la voce del vasto mondo delle religiose, che in Italia sono ancora più di ottantamila, e per chiedere a tutti rispetto e dignità per la donna. Ero ben cosciente che potevamo correre il rischio di essere strumentalizzate, mal interpretate e anche condannate da chi non vuole cogliere il messaggio semplice, schietto e genuino che vogliamo condividere. Infatti, non sono mancate alcune critiche da parte di chi ritiene inopportuno vedere delle suore in mezzo alla folla, preoccupati di non mischiare il “sacro con il profano”, e dimenticando che laddove si tratta della dignità della persona umana, creata a immagine di Dio, c’è solo il “sacro”. Il profano esiste solo quando noi profaniamo e deturpiamo questa stessa immagine per interessi e opportunismo. Ho ricevuto pure tanti messaggi di apprezzamento e incoraggiamento, oltre che di stupore per il coraggio e la determinazione nel far emergere una riflessione sul valore e la bellezza vera della donna, portatrice di valori veri, autentici e umani: armonia, vita, amore e speranza per una convivenza basata sul rispetto reciproco e sul riconoscimento di ruoli diversi ma complementari.

Pubblicato il 18 febbraio 2011 - Commenti (9)
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