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Becky, da prostituta a mamma

Beky ha 22 anni e da due vive in Italia. È una delle tante ragazze africane costrette alla prostituzione sulle strade del nostro Paese. Il disprezzo, l’umiliazione e l’emarginazione fanno parte della sua esperienza quotidiana. Sin da quando è arrivata in Italia ha la sensazione di non essere più nessuno: non ha né documenti né un nome, non ha famiglia né amici. L’unica cosa che sa è che la sua vita vale per quello che riesce ad incassare; perciò deve guadagnare molto per pagare il “debito” di 60 mila euro che i trafficanti le hanno imposto.

     Da qualche mese, tuttavia, qualcosa è cambiato. Beky ha scoperto di essere incinta. La prima reazione è stata di sorpresa e di paura: che cosa fare? Ai suoi sfruttatori non piace certo l’idea che per nove mesi rimanga senza guadagnare. Con forti minacce vogliono costringerla ad abortire. Nella mente di Beky emergono i ricordi del suo Paese, della sua famiglia, della sua cultura. Quella gravidanza non aspettata riaccende nel suo cuore un sentimento di dignità che pensava fosse totalmente estinto. Nella cultura della sua terra essere madre è l’espressione più alta dell’essere donna. E così nasce in lei il desiderio di rischiare tutto pur di tenere la sua creatura. Con quel bambino rinasce in lei l’orgoglio di essere donna e donna africana.

     Prendere questa decisione tuttavia non è facile: c'è la consapevolezza di essere da sola in un Paese straniero, la paura di coloro che controllano le schiave della prostituzione, la mancanza di contatto con la famiglia in Africa. Beky si rivolge a un Centro di ascolto della Caritas e le viene proposta l’accoglienza in una casa-famiglia, gestita da religiose. dove avrebbe trovato aiuto e protezione per lei e per il suo bambino. Casi simili sono molto frequenti in Italia. Negli ultimi anni molte donne, specie africane, sono riuscite a sfuggire ai loro sfruttatori chiedendo aiuto alle comunità di accoglienza pur di non perdere il loro bambino. La donna in Africa, pur nella sua grande povertà, mantiene forte il senso della dignità femminile, vissuta nell’altruismo, nel sacrificio e nella dedizione alla propria famiglia.

     La vita della donna africana è basata su tre pilastri, come tre sono le pietre del fuoco su cui cucina: Dio, la comunità e la famiglia. Per le africane, dunque, la maternità è qualcosa di essenziale alla femminilità, in fondo è ciò che caratterizza il loro essere donna. In Italia ci sono molte case che accolgono ragazze disposte a lasciare la strada. Ma questi sono soltanto luoghi di passaggio provvisori, perché l’obiettivo è quello l'integrazione della madre e del bambino nella società. La donna deve sentirsi accolta per essere a sua volta capace di accogliere la propria creatura. Con la maternità queste ragazze che hanno sperimentato tante sofferenze e hanno perso quasi totalmente il senso della propria  identità e dignità, ritrovano il loro valore come donna. L’essere madre regala loro la gioia di donarsi agli altri, fondamentale nella loro cultura.

     Emblematico quello che mi disse una volta una giovane madre nigeriana: «Grazie suora! Se non fosse stato per il vostro aiuto, ora, non soltanto mio figlio non sarebbe vivo, ma non ci sarei stata più nemmeno io». E tutto questo fa parte di una maternità condivisa a tanti livelli perché continua a promuovere la vita, a generare vita e a custodire il grande dono della vita che è sempre dono di Dio per la nostra umanità. E mentre ricordo il dono di mia madre con la sua dolcezza e fermezza non posso non ricordare le tante “madri” missionarie che ho incontrato nella mia vita in Africa e che mi hanno insegnato con il loro esempio che ogni donna è chiamata a generare vita, a portare vita, a far crescere e a proteggere la vita. Ed è stato proprio in Africa che ho imparato a donare vita e a vivere in pienezza il dono della fecondità e della maternità.

     Le donne africane, che incontriamo sulla strada o nelle nostre case di accoglienza, ci chiamano semplicemente “mama”, giacché la religiosa ricorda loro la presenza della madre alla quale confidare preoccupazioni e difficoltà e con cui condividere gioie, speranze e sogni per un futuro diverso. Per la donna africana la maternità è considerata la più grande ricchezza e il sogno più bello che porta nel cuore anche quando vive l’esperienza dello sfruttamento sulla strada con i rischi, le paure e le sofferenze che comporta. L’esperienza drammatica delle ragazze straniere sulle strade italiane è terribile, ma a volte la maternità, anche se frutto di violenza, può diventare la chiave per verso il riscatto e la liberazione.  

Pubblicato il 09 maggio 2011 - Commenti (2)

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Postato da folgore il 10/05/2011 23:37

Vedi maddy, sulla prostituzione ci sarebbe da scrivere per anni. certo che (sempre parlando in generale) le africane sono per la maggior parte costrette a fare questa vita mentre altre europee agiscono anche volontariamente (sai in una notte guadagnano con quella vita quanto una operaia in un mese!). Quindi direi che si dovrebbe circoscrivere la situazione e ritenere che solo una parte della nostra popolazione le frequenta. Inoltre si tratta di una cosa vecchia (tanto che quello viene definito "il mestiere più antico del mondo") e manco è vietato in Italia (è punito solo lo sfruttamento). Soluzioni: colpire i clienti con delle sanzioni alte. Se mancano i clienti anche l'eventuale presenza di offerta di sesso a pagamento sarebbe inutile. Della serie: se tutti andassero a prostitute come me certamente non ci sarebbero più da anni!

Postato da maddy il 10/05/2011 23:19

Cara Suor Eugenia, sto leggendo il libro che hai scritto (mi permetti di darti del tu?) con Anna Pozzi e lo trovo interessantissimo. çi vengono i brividi a pensare a quello che queste ragazze subiscono a causa di questa società malata. Penso che questo sia un problema sociale notevole se consideriamo che la maggior parte delle ragazze (e anche dei ragazzi) sono giovanissimi e dovrebbero essere il nostro futuro. Non si rendono conto i governi dei vari Paesi che stanno praticamente distruggendo se stessi e il loro stesso popolo per che cosa? per trovarsi padroni di niente? di un territorio disastrato coltivato a mine dove la gente muore di fame mentre altri continuano a diventare ricchi? Ma in fondo cos'è la ricchezza? Neppure il più ricco dei ricchi è niente nel momento in cui deve lasciare questa terra. Possibile che l'egoismo che infarcisce queste anime è così grande da non volere che altri possano godere di una vita dignitosa e tranquilla? Non sanno questi "figuri" (perchè non si possono definire nè umani nè animali, sono esseri crudeli senza cuore) che alla fine della loro vita si troveranno a fare i conti con le loro malefatte? Non hanno loro stessi madri, padri, sorelle, fratelli, cugini, figli? Sono stupefatta dalla malvagità che c'è in questo secolo che si definisce tecnologico ma che è solo diventato senza sentimento come appunto le macchine che costruisce. Io sono una persona positiva nonostante quello che ho scritto, ma tremo al pensiero di quello che i miei nipoti troveranno. Però cerco di vivere la vita con il sorriso sulle labbra perché penso che è l'amore per la vita e per le cose belle che alla fine vincerà, con fatica ma ce la farà, perché il male non può sconfiggere il bene. Il male si autodistruggerà come succede nei migliori telefilm, mentre il bene conquisterà il mondo. E io spero di esserci.

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Suor Eugenia Bonetti

Missionaria della Consolata, è stata per 24 anni in Kenya. Al ritorno comincia a lavorare in un Centro d’ascolto e accoglienza della Caritas di Torino, con donne immigrate, molte delle quali nigeriane, vittime di tratta. Dal 2000 è responsabile dell’Ufficio tratta dell’Unione superiori maggiori italiane (Usmi). Coordina una rete di 250 suore di 70 diverse congregazioni, che operano in più di cento case di accoglienza. Il presidente Ciampi l’ha nominata nel 2004 Commendatore della Repubblica italiana.
Ha scritto con Anna Pozzi il libro "Schiave" (Edizioni San Paolo).

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