L'Italia non volta le spalle a Dio

Da uno studio risulta che il 45,8% crede senza alcun dubbio. La voglia di sacro resiste: sotto certi aspetti aumenta. L’analisi del sociologo Franco Garelli, curatore della ricerca.

27/11/2011
Il sociologo Franco Garelli. Foto: Paolo Siccardi/Sync.
Il sociologo Franco Garelli. Foto: Paolo Siccardi/Sync.

È radicata e colpisce duro, ma non affonda il sacro. La secolarizzazione svuota le chiese (in Italia, comunque, meno rispetto a quel che accade in altri Paesi), ma non sfratta Dio, o meglio non sfratta il bisogno di trascendente. Lo prova l’ultima ricerca del sociologo Franco Garelli, Religione all’italiana, l’anima del Paese messaa nudo, pubblicata dal Mulino.

«Il risultato più sorprendente è che niente e nessuno cancella un sentire religioso addirittura più diffuso di 15 anni fa, quando realizzammo un’analoga indagine», esordisce il professor Franco Garelli. «Risultano in crescita, infatti, sia la quota di persone secondo le quali Dio vigila e protegge la loro vita (pensa così il 66,8 per cento degli italiani), sia di quanti ritengono di aver ricevuto una grazia (27,6), sia ancora di coloro che avvertono la presenza del maligno (34,6)». I dati, da una parte deludono coloro che speravano di aver relegato la fede nel sottoscala della storia e dall’altra, vista la loro complessità, provocano quanti pensavano di poter esultare di fronte a uno scampato pericolo,abbandonandosi a un entusiasmo per nulla giustificato.

Quella che emerge è una realtà variegata, dove coesistono contrasti netti e mille sfumature. «Gli italiani dichiaratamente atei sono il 6,6 per cento; quelli agnostici, cioè indifferenti, sono il 6,2 per cento; il 4,5 non crede nel Dio della Bibbia ma in un più generico potere superiore; siamo al di sotto delle percentuali registrate in altri Paesi europei», precisa Garelli. «Per contro, il 45,8 per cento degli italiani crede in maniera granitica che Dio esista; il 25,1 per cento arriva alla stessa conclusione, pur nutrendo dubbi al riguardo; l’11,8 per cento, infine, professa un credo altalenante, ammettendo l’esistenza di Dio in alcuni momenti della propria vita e negandola in altri».

Il problema, però, è quale Dio si prega. E quanto. E come. «Se l’86,1 per cento degli italiani si dichiara ancora cattolico, il 28,3 per cento non si confessa mai e il 20,7 lo fa a distanza di anni; il 23,7 ammette di non pregare mai e il 43,9 per cento, alla domanda seesiste qualcosa dopo la morte, risponde con un “non so” o un “non si può sapere” cui va aggiunto un 14,6 per cento per cui tutto finisce con la morte giacché, afferma deciso, l’aldilà non esiste». Anche la partecipazione alla Messa domenicale diminuisce. Dice di prendere parte alla celebrazione eucaristica, con regolarità, tutte le settimane, il 26,5 per cento degli italiani. «Era il 33 per cento a metà degli anni Novanta», osserva Garelli. «Per onestà intellettuale, inoltre, non possiamo escludere un over reporting, l’aver, in altre parole, dichiarato quel che si vorrebbe fare ma che in realtà non si fa. In ogni caso, anche se la media vera fosse un po’ più bassa non scenderebbe mai al 5-6 per cento della Francia o al 10-12 percento della Germania».

Della Chiesa si apprezzano l’aspetto mistico e l’impegno caritativo, mentre si seguono selettivamente certe indicazioni, tralasciandone altre. «Il 78,1 per cento degli italiani sente molto vicino a sé papa Wojtyla, il 71,2 Madre Teresa, il 66,8 i gruppi che operano nel volontariato, il 65,6 Padre Pio, il 52,1 la parrocchia, anche perché spesso è l’unico aiuto per arrivare a fine mese», dice Garelli. «Ma oltre il 70 per cento sostiene che si può essere buoni cattolici anche senza seguire le indicazioni della Chiesa in campo sessuale:il 73 per cento è favorevole all’uso dei preservativi e solo il 6,6 per cento accetta di ricorrere unicamente ai metodi naturali. Più articolato il modo con cui si affronta la tragedia dell’aborto: per il 12,4 per cento è lecito in tutti i casi in cui la donna lo decide; per il 53,6 per cento potrebbe essere contemplato in caso di stupro, di grave rischio per la salute della mamma e di forte probabilità di grave malformazione del nascituro. A non ritenere mai lecito l’aborto, in nessun caso,è il 23,1 per cento degli italiani». E l’eutanasia? «L’Italia è sostanzialmente divisa in tre: il 37,3 per cento è favorevole, il 33,1 è contrario, il 29,6 è incerto».

 

Il sociologo Franco Garelli. Foto: Paolo Siccardi/Sync.
Il sociologo Franco Garelli. Foto: Paolo Siccardi/Sync.

Complessivamente, risulta più attento al fenomeno religioso il Sud, seguito a distanza dal Nord, mentre le regioni del Centro sono più scettiche se non apertamente anticlericali. «L’indagine, durata alcuni anni, è stata svolta dall’Istituto demoscopico Eurisko di Milano», spiega Garelli, «che ha mobilitato 300 incaricati per intervistare a casa loro 3.160 italianid’età compresa tra i 16 e i 74 anni, un campione rappresentativo sotto ogni punto di vista, a partire da quello geografico: l’indagine è stata infatti condotta in circa 280 comuni, equamente suddivisi tra le varie aree del Paese». I dati sono stati poi elaborati da un selezionato gruppo di lavoro del dipartimento di Scienze sociali dell’Università di Torino.

«L’idea di fondo», afferma Garelli, che ha coordinato l’équipe, «è che per molti italiani il cattolicesimo sia un affare troppo di famiglia per liberarsene a cuor leggero, o troppo intrecciato con le vicende personali per farne a meno nei momenti decisivi dell’esistenza. Un rapporto flessibile, selettivo, “su misura”è dunque la cifra prevalente dell’adesione di molti alla fede della tradizione. Un cattolicesimocon propri tempi e ritmi, in alcuni casi piùorecchiato che vissuto, evocato anche da chil’ha confinato in una “memoria remota”».

«La persistenza di questo cattolicesimo delle intenzioni o della forma (o anagrafico, o di famiglia) è il dato più paradossale dell’epoca attuale», conclude il sociologo Franco Garelli. «L’avvento del pluralismo culturale e religioso non produce necessariamente l’abbandono dei riferimenti di fede, anche se ne condiziona l’espressione. Alla Chiesa cattolica tocca rievangelizzare questa sete di sacro. Con rinnovati linguaggi e sapendo che tutto, oggi come ieri, si gioca sulla testimonianza personale dei suoi componenti, sacerdoti, religiosi, laici».

Alberto Chiara
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Postato da Antonio Cecere il 07/12/2011 11:56

Il brivido di solito giunge quando si ha timore di qualcosa, quando manca il desiderio di sperare, quando si ha freddo, quando la persona amata ti guarda e tu non puoi ancora dire quello che senti. Il brivido giunge anche nella giornata di sole. Giunge tutto inaspettato, giunge in silenzio ma ti tradisce come quando divieni rosso a causa di un complimento, di un gesto bello, di un complimento inatteso. Lo stupore di un Dio che si rivela oggi appare lontano, quanto mai imbarazzante. Un brivido appunto che non capiamo, che non sentiamo. Si giunge al limite dell’essere noi quando un altro non ci riconosce. E anche lì giù l’atteso brivido. In una grotta, quella delle paure che abbiamo il termostato del cuore ci sta insegnando che non dobbiamo pensare di riscaldarci. E’ ormai ovvio che non hai bisogno di una carezza per spiegare affetto, è apparentemente naturale che non dici più un sentimento senza essere derisi, non è più facile essere veri quando il vero si è perso. Ci si stupisce più di un bambino? No. Ci si stupisce ancora di un’alba? Di un tramonto sul mare? Delle nebbia che ti fa chiedere dove tu sia in una strada? Vi chiederete il motivo di questa nota. Ebbene. Sognare è la cifra che ci manca. Questo Avvento richiede di più di quanto pensiamo. Le strade del sentire l’altro, del vedere una nuvola in cielo che appare e scompare, stupirsi di un cielo che pare azzurro e poi grigio. Non si ha più il sapore delle piccole cose, dell’abbraccio di un amico, di una pacca sulle spalle. Non si gusta nemmeno l’essere mani che cercano un’altra mano. Non si sente più l’odore di un vento che ti accarezza il viso e che sembra venire da lontano, una sorta di respiro che ti sospinge in faccia il proprio bacio. Prendi la strada che ti porta a una grotta e ti fermi perché ormai sai bene che la grotta delle paure è in fondo al tuo cuore. Spingi la fantasia verso un bambino che piangerà nascendo ma sei sommerso di immagini che vedono il pianto solo nel dolore. E il tempo fugge, scappa nei meandri del suo momentaneo tocco d’orologio. Vuoi sperare e sembra che la speranza sia stata messa in un sacco, chiusa a dovere per non renderla visibile. La nostra tassa sulla speranza è in un amore mancato, in un’amicizia naufragata, in un quieto chiudersi in sé perché non serve più vivere. Una tassa quella sulla speranza che non ripiana il debito che abbiamo in noi. Nessuna persona ha fatto la giusta manovra se non ha ripianato la perdita di sogno che ci ha tolto il colore dei desideri, dei progetti dal prato che ogni giorno percorriamo. Un prato che sembra non avere fiori. Quando la tassa arriva ti annulla il colore, si ritorna a bianco e nero. Si cade a capofitto nell’oggi, nell’ovvio. La speranza invece ti spinge verso la meta giusta. Ma perché? Perché questa condanna spinge l’uomo alla lacrima non di gioia, perché la strada invece di dirti una meta bella affianca burroni di catastrofi, di fiumi in piena? Perché si è presi talmente dal non sperare da dire che non serve più dare ragione delle speranze che in noi invece sono presenti? Cosa spinge la carezza a essere derisa? Abbiamo perso la meraviglia delle tenerezza, il voler accogliere nell’abbraccio la persona accanto? Presi dai timori è facile invece non intenerirsi, nascondersi dietro la maschera dei propri problemi. Di una crisi economica che ti scivola addosso. Quando conosci una persona la vedi negli occhi, la scruti nel suo orizzonte senza saperlo. Se quell’orizzonte converge in un infinito cui andiamo diretti come rette parallele qualche minuto prima, ora diviene un incrocio. Cui dare o meno la precedenza. Preferiamo non dare precedenza perché ci siamo prima noi, perché il nostro sogno è più vero. Ma così facendo tagliamo le gambe alla manovra più bella di un uomo. Quella in cui il cuore batte all’unisono con un sogno, quella in cui un sogno si costruisce con la realtà delle nostre verità frantumate apparentemente in rivoli diversi ma che invece attendono solo di essere un fiume in piena. Immaginate il nostro cuore natalizio come quello che riprende l’alveo giusto, che sommerge le nostre certezze inutili, ripulisce dai nostri piani regolatori di falsi sorrisi, di ipocrisia. Pulire con la tenerezza i nostri abbracci, volere l’arcobaleno e non il diluvio, scavare la buca nel terreno delle sicurezza per trovare il fondamento che siamo. Una sfida difficile. Quando Maria vide l’angelo la penso come quella donna in attesa di qualcosa di bello alle porte. Giuseppe forse quel giorno doveva andare a prenderla per portarla a vedere il tramonto del sole insieme, magari su un pascolo verde. Fremeva, attendeva. Se l’erano promesso non in chat ma mano nella mano di fronte casa sua. Fremeva dall’attesa di camminare per il villaggio mano nella mano, sorridenti e pieni di luce. E venne l’Amore sotto forma di uno sguardo dato alla finestra. Niente grandi apparizioni, canti celestiali. Solo un brivido nel cuore accettato mentre una carezza tenera giungeva sui capelli di Maria. Di quelle carezze che sai che ti spingono a sommergerti dentro te per assaporarne la profondità nel cuore. Che sembrano toglierti dall’abisso quotidiano che vogliono far credere esista, che rende tutto inutile. L’esempio oggi deve essere quello di immergersi nella tenerezza per non stancarsi del tempo che sembra fuggire verso le direzioni del grigio. Il treno del grigio non ha binari. Siamo noi a costruirlo. Quando Maria incontrò Giuseppe forse lo rese precario. Sembrava che la tassa della sfortuna fosse caduta sul povero Giuseppe. E invece la speranza lo aveva preso per mano nella grande avventura di un amore destinato a essere tenero. Tenero come un giaciglio di paglia, tenero come un vento che ti soffia sul viso, vero come il vento dell’amore che ti soffia sul viso senza che tu possa vederlo. Ma che ti provoca quel brivido intenso che ti fa dire…C’è…e con lui ci sono anche io!

Postato da Franco Salis il 29/11/2011 18:35

Gli ultimi due commi sono estremamente interessanti. L’espressione “alla Chiesa cattolica tocca rievangelizzare questa sete di sacro sostituirei la parola “sete” con desiderio di rimanere attaccati al cordone ombelicale. Tale conclusione male si concilia con “Da uno studio risulta che il 45,8% crede senza alcun dubbio”. Esiste un cristiano che non abbia mai avuto un dubbio? Parimenti più impropria è l’espressione “ granitica che Dio esista”. Se “Dice di prendere parte alla celebrazione eucaristica, con regolarità, tutte le settimane, il 26,5 per cento degli italiani. «Era il 33 per cento a metà degli anni Novanta», vuol dire che i cattolici sono il 26,5,così calati dal 33 degli anni novanta. Le percentuali più elevate, sono da considerarsi cattolici che hanno costruito un loro cattolicesimo, un loro Dio, a propria misura, fatti salvi gli impediti e coloro che si sentono comunque intimamente uniti e questa “intimità” sfugge ad ogni ricerca. Il problema dell’auto evangelizzazione è ripreso dal Papa; “ Per questo, dunque, l’evangelizzazione non è «solo un compito da portare all’esterno», perché «noi stessi... siamo i primi ad aver bisogno» di essere rievangelizzati.” ( Avvenire .it, 28 novembre 2011, Discorso del Papa ai vescovi USA, a cura di Salvatore Mazza) Diverso l’atteggiamento del cardinale Bagnasco che ha il coraggio di emanare un documento e di disporne o meglio imporre la lettura in tutte le parrocchie dove fra l’altro si legge: “ E ricorda che "la Chiesa vive con la gente fra le case degli uomini e in spirito di servizio e di amore evangelico condivide le vicende che coinvolgono persone e famiglie". Ma come fa a dire queste cose, quando non si era accorto della presenza di un prete pedofilo nella sua diocesi?(idem, l’Appello di Bagnasco, senza firma). Ha ragione don Mazzi che oggi la chiesa ha bisogno di un altro Concilio per porre fine a tante contrastanti posizioni, che hanno solo il “pregio” di confondere i fedeli.Ciao

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