31/01/2013
Il cardinale Gianfranco Ravasi. Questa foto e quella di copertina sono di Alessia Giuliani/Cpp..
«Mi guardai attorno: ed ecco non c’era nessuno,
nessuno che fosse capace di consigliare,
nessuno da interrogare per avere risposta» (Isaia 41,28)
Avrà pure un significato il fatto che uno dei doni dello Spirito Santo sia proprio il “consiglio”, ossia la guida offerta alla ricerca, alla domanda, all’attesa umana. Non per nulla il crescere del bambino avviene attraverso una batteria di domande che egli scatena nei confronti dell’adulto perché lo aiuti a decifrare il senso della realtà. Similmente la scienza si regge e si sviluppa proprio sulla base di interrogativi ai quali si cerca di dare risposta. Ed è sempre nella stessa linea che si spiegano quei “Perché?” angosciati che i sofferenti lanciano verso il cielo, in attesa di un’indicazione di significato che giustifichi tanta amarezza e l’apparente assurdità del dolore.
La missione dell’educatore è, pertanto, indispensabile, come lo è quella del padre, del maestro, del sapiente, del sacerdote, del consigliere, del direttore spirituale e così via. Egli, certo, non deve sostituirsi al discepolo o al figlio, ma aiutarlo a inoltrarsi sui sentieri della vita, del pensiero e dell’azione. Giustamente un famoso pensatore politico francese, Montesquieu (1689-1755), ammoniva lo scrittore che «non bisogna mai esaurire un argomento al punto tale che al lettore non resti nulla da fare. Non si tratta di far leggere ma di far pensare», vale a dire ricercare e proseguire in proprio, per cui il motto del vero “consigliere” dovrebbe essere quello del Battista:
«Bisogna che lui, Cristo [nel nostro caso, il discepolo o il figlio], cresca e che io diminuisca» (Giovanni 3,30).
Un sacerdote dialoga con dei giovanissimi. Foto di Attilio Rossetti.
Questa lunga premessa ci introduce nel frammento suggestivo che
abbiamo proposto, estraendolo da una delle prime pagine di quel profeta
anonimo del VI secolo a.C., il cui scritto è entrato nei capitoli 40-55
del libro del grande Isaia e per questo è stato denominato il Secondo
Isaia. Egli sta puntando l’indice contro una piaga costante di
Israele, quella dell’idolatria. Il fascino di una religiosità più
accomodante non può cancellare il vuoto che essa lascia nell’anima.
Agli idoli il profeta indirizza questa accusa implacabile: «Voi siete un
nulla, la vostra opera non vale niente... Vento e vuoto sono gli idoli»
(41,24.29).
In particolare essi non sono in grado di indicare un percorso, non sanno
certo annunziare il futuro, aprendo prospettive verso le quali
orientare l’impegno presente. Essi appunto non possono né consigliare né
guidare, non sanno proporre scelte giuste né esortare al bene,
incitare, incoraggiare gli infelici. Per questo, il Secondo Isaia fa
balenare un vuoto che è segno dell’abbandono da parte del vero Dio nei
riguardi dell’umanità: l’assenza dei profeti autentici, che sono le guide, quasi le fiaccole che conducono nelle tenebre verso una meta di salvezza, evitando i precipizi.
È un po’ il ritratto dei nostri giorni, privi di padri e di maestri,
tempi nei quali ci si lascia catturare dalla propaganda e dalla
pubblicità, dai luoghi comuni e dalla deriva della massa. Scriveva
san Paolo al suo discepolo Timoteo: «Verrà giorno in cui non si
sopporterà più la sana dottrina, ma per il prurito di udire qualcosa,
gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie,
rifiutando di dar ascolto alla verità per volgersi alle favole»
(2Timoteo 4,3-4).
+ cardinale Gianfranco Ravasi