24/04/2011
Nei primi secoli della Chiesa, quando calendari e calcoli astronomici non erano a disposizione delle masse dei fedeli, le “lettere festali” annuncianti la data nella quale si sarebbe celebrata la Pasqua si diramavano a partire dalla sede patriarcale di Alessandria e, rincorrendosi da un estremo all’altro della Terra abitata, “evangelizzavano”, davano la Buona Notizia alle singole Chiese locali.
Come già per lo scorso anno, anche in questo, per una rara e benedetta coincidenza di calendari, tutte le Chiese cristiane festeggiano nello stesso giorno la Pasqua del Signore Gesù Cristo. E, di conseguenza, tutti i cristiani hanno vissuto in sintonia temporale oltre che spirituale la Quaresima, tempo di conversione da celebrarsi ecclesialmente, cioè tutti insieme come comunità cristiana, come popolo di Dio invitato a ritornare al suo Signore. È un’occasione preziosa per rendere insieme ragione della speranza che abita i cristiani, di testimoniare insieme che il nostro Signore ha vinto la morte e ci ha donato la vita piena, di proclamare con un cuore e un’anima sola, nello stesso giorno, che «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16).
UNA PROFONDA RADICE ECUMENICA
Ed è anche circostanza favorevole per riflettere sul senso profondamente
ecumenico che la Pasqua riveste: la celebrazione del mistero della
Risurrezione è il luogo per eccellenza per sperimentare che, come ha
affermato Giovanni Paolo II nella sua enciclica Ut unum sint,
«l’ecumenismo, il movimento a favore dell’unità dei cristiani, non è
soltanto una qualche “appendice”, che s’aggiunge all’attività
tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente
alla sua vita e alla sua azione e deve, di conseguenza, pervadere questo
insieme ed essere come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso,
cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo».
Davvero l’ecumenismo
trova nella festa di Pasqua la sua radice profonda, il senso del suo
stesso esistere e il luogo privilegiato per l’annuncio al mondo della
“buona novella” in modo autorevole e credibile. «Credo la risurrezione
della carne e la vita eterna», recita la professione di fede comune a
tutte le confessioni cristiane. Che ne hanno fatto i cristiani di questa
affermazione centrale della loro fede? Questa “materialità”
dell’annuncio evangelico ha conosciuto ostacoli e ridimensionamenti fin
dal suo primo confrontarsi con la mentalità ellenistica ed è stata
rapidamente convertita in una “immortalità dell’anima”, più agevole da
contrapporre alla caducità del corpo fisico, brutale realtà con la quale
era ed è impossibile non fare i conti.
Liturgia pasquale presso il Santo Sepolcro, a Gerusalemme.
L'ADESIONE AL CORPO DI CRISTO
Ai giorni nostri, poi, si sono
fatte strada da un lato una specie di idolatria del corpo, una pretesa
di renderlo sempre bello e incorruttibile, anche a costo di espropriarlo
dal suo intimo legame con l’insieme della persona, e d’altro lato, una
sorta di indifferentismo tra risurrezione e reincarnazione, una nebulosa
indefinita in cui sentimenti, stati d’animo, speranze, illusioni,
sensazioni navigano in un oceano di benessere cosmico, una miscela di
“spirituale” che provocherebbe effetti benefici anche sul corpo. Ed è
scomparsa la ”differenza cristiana”, vittima di una fuga – anche di
molti cristiani – verso una religiosità à la carte, meno impegnativa e
più soddisfacente per i mutevoli desideri personali.
La festa della
Pasqua, invece, soprattutto se colta nell’unità teologica dell’intero
triduo pasquale – passione, morte e risurrezione di Gesù di Nazaret,
riconosciuto dai discepoli come Signore, Messia e Figlio di Dio –
riporta ogni cristiano alla concretezza quotidiana della sua adesione
non a un “corpo” dottrinale ma al corpo di Cristo e al corpo della
Chiesa.
Quando i cristiani proclamano la propria fede nella “risurrezione della
carne”, riaffermano che il nostro essere uomini e donne in carne e ossa è
stato assunto una volta per tutte nella dimensione divina
dall’incarnazione del Figlio di Dio e che, quindi, una promessa di
riscatto e liberazione attende anche i nostri poveri corpi.
È attraverso
il corpo che noi viviamo e comunichiamo, soffriamo e gioiamo,
percepiamo gli effetti del bene e del male, ci prendiamo cura o
trascuriamo l’altro, lo consoliamo o l’offendiamo. Allora comunicare al
corpo e al sangue del Signore morto e risorto e formare così un unico
corpo con i fratelli non è per i cristiani un rito esoterico esclusivo,
ma un’esperienza inclusiva, vissuta in un certo senso in nome e a
beneficio di tutti.
È l’annuncio di una speranza universale: i nostri
corpi non sono destinati alla corruzione ma a una pienezza di vita, non
li attende una rianimazione di cadavere ma un disvelamento del loro
essere finalizzati alla comunione e all’amore, cioè alla pienezza di una
vita degna di tal nome. E la credibilità di questo annuncio riceve un
impulso decisivo dal poterlo proclamare a una voce sola, cristiani delle
diverse confessioni: celebrare Pasqua insieme non è questione di
opportunità di calendario, ma di risposta a un anelito all’unità dei
discepoli di Cristo «affinché il mondo creda».
In Oriente come in
Occidente, in situazioni di antica cristianità come in Paesi in cui sono
minoranza sovente osteggiata o perseguitata, ovunque dei cristiani
confessano Gesù Cristo a loro salvezza sale nel giorno di Pasqua un
canto di gioia perché quel Risorto – che nel corpo ha sofferto la
passione, la morte e la discesa nella tomba e nel regno della non-vita –
è primizia di tutta l’umanità, perché la vita regna definitivamente,
perché per ogni creatura in quell’alba pasquale di duemila anni fa si è
dischiuso un processo segreto ma reale di redenzione, di vita piena
nell’amore.
Il mondo attende ancora oggi che i cristiani sappiano
narrare con un cuore solo e un’anima sola questa Buona Notizia, svelando
con la loro vita che «il solo e vero peccato è rimanere insensibili
alla Risurrezione», come esclamava Isacco il Siro, e cantando a tutti e
per tutti: «Non temete, non abbiate paura, non provate angoscia! Cristo è
risorto e vi precede!».
Enzo Bianchi