Ravasi: quei semi di cristianesimo

Che cosa può fare un cristiano per santificare la Pasqua? La riflessione del cardinale Ravasi a partire da un poemetto di Blaise Cendrars.

24/04/2011
Il cardinale Gianfranco Ravasi.
Il cardinale Gianfranco Ravasi.

Cinquant’anni fa moriva a Parigi Blaise Cendrars, un personaggio dall’esistenza errabonda e turbolenta, reporter, poeta, romanziere, conduttore radiofonico, combattente nella Prima guerra mondiale durante la quale perderà una mano. Egli ci ha lasciato, tra i vari suoi scritti, un sorprendente poemetto intitolato Pasqua a New York (1912).

     In quel testo rappresentava una sua Settimana santa per le strade e i quartieri della Grande Mela, tra ladri, vagabondi, pezzenti, prostitute, suonatori ambulanti, «cinesi che sorridono con le schiene, facendo inchini», scendendo nella metropolitana, ma penetrando anche a Wall Street: «Signore, la Banca illuminata è come una cassaforte / dove si è coagulato il sangue della tua morte». Cendrars s’avviava anche sulle banchine ove approdavano «gli immensi battelli neri» degli emigranti: «Ci sono greci, spagnoli, italiani, russi, bulgari, mongoli, persiani. / Sono bestie da circo che saltano i meridiani. / Si getta loro un pezzo di carne nera, come ai cani».

     E poi ecco gli ebrei nel loro quartiere e le chiese cristiane, una presenza tra le tante in una società così multiculturale. Affiorava, così, in lui la nostalgia del passato nei villaggi europei: «Dove sono le dolci antifone, le litanie? / Dove i lunghi uffici e i bei cantici? / Dove sono le musiche e i riti liturgici?». Alla fine il poeta giungeva nella fredda stanza d’albergo ove era ospitato. E qui si consumava lo scontro-incontro col Cristo pasquale, sofferente e vivente: «Signore, rientro stanco, sono solo e molto triste… / La mia camera è nuda come una tomba. / Penso, Signore, alle mie ore più brutte. / Penso, Signore, alle mie ore già andate. / Non penso più a Te. Non penso più a Te».

     Eppure affiorava, segreta, un’implorazione mistica: «Fa’, Signore, che il mio viso là tra le mie mani / lasci cadere la maschera d’angoscia che mi preme. / Fa’, Signore, che le mie mani posate sulla bocca / non vi lecchino la schiuma di una disperazione cupa».

     UN SEME CRISTIANO NEL DESERTO QUOTIDIANO

     Abbiamo voluto evocare ampiamente questo poemetto dimenticato perché – sia pure a distanza di un secolo da oggi – dipinge la scena che è vissuta da molti di coloro che ora leggono queste righe. La Pasqua – a differenza del Natale, ove almeno le luci commerciali, il rito degli auguri e una certa memoria collettiva custodiscono ancora il ricordo di un evento cristiano – scivola quasi invisibile nel calendario e negli spazi urbani. Al massimo è scandita da un affollarsi maggiore nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti, per obbedire alle offerte promozionali degli itinerari turistici verso le mete più disparate.

     Come nella New York multietnica di allora, anche nelle nostre città una larga fetta di popolazione non ha nella sua agenda questa memoria cristiana capitale, così come sempre più largo è il “Cortile dei Gentili”, ove battezzati non più credenti o indifferenti non si premurano certo di interrogarsi su quella realtà di morte e di vita. A questo punto potremmo avanzare un interrogativo: il cristiano che, invece, varca la soglia di una chiesa forse già a partire dal Giovedì santo, che desidera ancora testimoniare la sua fede, che vorrebbe deporre un seme di ricerca nel deserto della superficialità e della banalità dominante, che scelta ha di fronte a sé?

     Tentiamo di suggerire qualche proposta. Innanzitutto deve lui per primo ritornare a quelle sorgenti di luce, di amore, di bellezza, perché probabilmente esse si sono ricoperte di sabbia anche nel suo cuore. La liturgia è un orizzonte di segni e di simboli trasparenti, il Crocifisso è un emblema nel quale si raggruma tutto il dolore dell’umanità, la Veglia di risurrezione è il sipario aperto sull’eterno e sull’infinito che Dio rende disponibili anche all’umanità. La Pasqua, quindi, potrebbe essere una “ricarica” della propria fede, dopo giorni di abitudine e forse anche di infedeltà.

    

    SIATE PRONTI A RISPONDERE

    C’è, però, un’altra possibilità di testimonianza ed è quella che deve spingere i nostri passi verso coloro che – come Cendrars – sono soli e abbandonati. Neanche il giorno di Pasqua il loro telefono squillerà. Rimarranno là nel loro appartamento – come scriveva un nostro poeta, Giorgio Caproni – davanti a una parete: soli, con le loro ragioni e i loro torti, a parlare ai morti, perché nessun vivo si ricorda e pensa più a loro. Il cristiano dovrebbe scovare nei giorni pasquali, all’interno del suo quartiere o del suo condominio una persona (anziana, malata, straniera) per la quale la “risurrezione” può riprodursi e attuarsi attraverso il suo gesto d’affetto, una parola di vicinanza, un ascolto partecipe.

     E, infine, c’è tutto quel grande “cortile” che spesso – come accadeva nel tempio di Gerusalemme – si allarga proprio davanti alle nostre chiese, nelle piazze “laiche”: penso, ad esempio, a piazza Duomo a Milano, ove si accalcherà una folla che non si azzarderà certo a superare i portali dell’edificio sacro per gettare uno sguardo su quel Cristo crocifisso, sulle grandi immagini della sua storia umana e divina, a sostare in silenzio almeno con la propria coscienza.

     Ebbene, chi è nel tempio e ora canta e prega, dev’essere capace – una volta uscito in quel “cortile” che è poi la vita quotidiana, che è il lavoro, la scuola, la società – di mettere in pratica quello che già secoli fa suggeriva ai cristiani l’apostolo Pietro: «Siate pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. E questo sia fatto con dolcezza, rispetto e retta coscienza» (1Pietro 3,15-16). Parola e vita da portare in quel “cortile”, senza vergogna e senza asprezza, non nascondendo sotto il moggio la propria luce, ma neanche volendo scagliarla contro gli altri.

     Lasciarla risplendere «davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone»: alla fine, forse, anche loro saranno pronti lungo vie inattese «a rendere gloria al Padre che è nei cieli» (Matteo 5,16).

Gianfranco Ravasi
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Postato da Andrea Annibale il 24/04/2011 13:36

Vorrei riprendere un punto centrale della riflessione del Cardinale Ravasi per quanto attiene il passo che parla delle opere buone dei cristiani per quanto attiene gli atei. Cosa ha fatto Gesù con gli atei? Ha detto che c’è più gioia nel dare che nel ricevere. E ha dato ai non credenti, che allora erano identificabili con i cosiddetti “cagnolini” (Marco, 7, 28), i non giudei, i non farisei, i non sadducei. Ha dato speranza, guarigione, acqua da bere, benessere. Oggi, a mio modesto avviso, i cristiani rischiano per passare solo come quelli che rivendicano un sogno egemonico impossibile, alla luce dei cosiddetti “valori non negoziabili” e dei “temi etici rilevanti”. Io ho proposto e propongo di dare ai laici un polo televisivo dei laici, perché la Pasqua sia la festa dello “spirito [minuscolo, sic] che risorge per tutti”, una bellissima intuizione di Eugenio Scalfari su la Repubblica di oggi, 24 aprile 2011. Credo che dobbiamo stare vicini a quei politici che difendono i valori cattolici al centro, a destra e a sinistra e contemporaneamente non stancarci mai di lanciare ponti (pontifex significa “costruttore di ponti”) ad imitazione di quel Sommo Pontefice che è il Papa. Un possibile ponte potrebbe implicare il concordare valori etici comuni per cattolici e non cattolici per la convivenza della e nella Nazione e percorrere la strada della obiezione di coscienza per i cristiani. Ad esempio, perché non permettere agli sposi cristiani di rinunciare alla possibilità del divorzio nel momento in cui si sposano in Chiesa?

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