29/07/2012
Il 19 novembre 1786 nasceva a Saludecio, un grosso borgo sulle colline a ridosso di Rimini, Elisabetta Renzi. I genitori erano agiati proprietari terrieri e sinceramente credenti in una Romagna, allora facente parte dello Stato Pontificio, dove la pratica religiosa era solidamente radicata. Il papà, Giambattista Renzi, aveva un ruolo importante nella Compagnia del Gonfalone e nella congregazione del Santissimo Sacramento, occupandosi soprattutto del settore caritativo-assistenziale; la madre era una donna di alto livello spirituale, tutta dedita alla famiglia. In casa la fede aveva un posto d’onore e la pratica della carità verso i poveri era abituale. Bettina (come era chiamata dai suoi) aveva un «naturale dolcissimo», segno di un equilibrio interiore che la rendeva simpatica a tutti.
Come era consuetudine per le ragazze di buona famiglia, Elisabetta fu collocata ancora giovanissima nel monastero delle Clarisse di Mondaino, località vicina a Saludecio. Qui ricevette una buona base culturale, imparando anche i lavori domestici, in un clima di rigida disciplina scandita sui ritmi del chiostro: ogni mattina Messa, meditazione, recita del piccolo ufficio della Madonna e del Rosario; ogni due settimane confessione e comunione; uniche visite autorizzate quelle dei genitori e dei fratelli; durante i pasti veniva letto un libro spirituale. Per la ragazzina, comunque, che già a nove anni aveva formulato una singolare promessa di verginità, il monastero rappresentò l’ambiente ideale per consolidare la sua scelta vocazionale, anche se le appariva ancora incerto il “come” realizzarla. A bloccare i suoi progetti sopravvenne una strana malattia che l’avrebbe tormentata per alcuni anni: non ne conosciamo il nome, ma dovette trattarsi di qualcosa di molto serio. Lei comunque non si lasciò intimorire e, superata la fase acuta, nel settembre 1807, quasi ventunenne, entrò nel monastero delle Agostiniane di Pietrarubbia, motivando così la sua scelta, in una lettera al papà: «Mi attaccherò a questo chiostro come altre volte il servo alla gleba da lui coltivata… All’infuori di Dio, non c’è cosa solida, nessuna, nessuna al mondo! Se è la vita, passa; se è la ricchezza, sfugge; se è la salute, perdesi; se è la reputazione, la ci viene intaccata; ah, tutte le cose se ne vanno, precipitano. O babbo, mi permetta che io attenda qui il premio di opere buone, di buoni pensieri, di desideri buoni, imperocché Dio, che solo è buono, anche dei buoni desideri tiene conto».
A Pietrarubbia però non poté nemmeno fare la vestizione perché il 25 aprile 1810 arrivava il decreto di espulsione di tutte le monache varato dal governo napoleonico. Il monastero chiuse per sempre i battenti. Il direttore spirituale della Renzi, don Vitale Corbucci, un santo sacerdote che la conosceva dal 1799, la convinse che la sua vera vocazione era quella di educatrice.
Dietro suo consiglio, la giovane nell’aprile 1824 si presentò al “Conservatorio” di Coriano, una scuola per ragazze povere messa in piedi da un amico del Corbucci, don Giacomo Gabellini, e diretta da suor Agnese Fattiboni, una religiosa espulsa dal soppresso convento forlivese di Santa Chiara. Inseritasi subito con geniale attivismo in quella comunità, dopo qualche tempo Elisabetta suggerì un’idea per assicurare un solido futuro all’istituzione: confluire nelle Figlie della Carità fondate da santa Maddalena di Canossa, la quale cercava di aprire una sua casa nello Stato Pontificio. Dopo una prima risposta positiva giunta da Verona, il progetto andò in fumo anche per delle calunnie diffuse ad arte nella zona contro don Gabellini e suor Agnese: questa tornò in convento, mentre il sacerdote si ritirò in Toscana, mantenendo però la proprietà del Conservatorio, mentre la Canossa, tuttora incerta sulla fusione, affidò la direzione della scuola a Elisabetta.
Questa puntò decisamente a organizzarvi anche una intensa vita spirituale, dando al gruppetto delle sue collaboratrici il nome di “Povere del Crocifisso ritirate in Coriano” e stendendo per la piccola comunità un regolamento. Il riferimento al Crocifisso si spiega con la diffusione di questa devozione in Emilia Romagna e soprattutto a Coriano, dove si venera uno stupendo crocifisso ligneo, probabilmente di origine bizantina, che fu trovato in mare nel 1200 e che ogni anno è portato in processione con grande concorso di popolo. La scuola, sotto la guida della Renzi, si affollò ben presto di allieve e da Sogliano, altro centro riminese, chiesero a lei di istituirne un’altra. Il vescovo intanto, nel 1830 approvò il regolamento, ma per la vestizione delle “Povere del Crocifisso” (undici in tutto) si dovette attendere perché questo vescovo dal carattere un po’ lunatico (Pio IX ne aveva addirittura sconsigliato la nomina) cambiava spesso idea mettendo a dura prova la pazienza della fondatrice. Finalmente, la vestizione si fece il 29 agosto 1839, cinque giorni dopo che il vescovo aveva eretto l’istituto delle Maestre Pie dell’Addolorata (il nuovo nome si spiega con una particolare devozione della Beata verso la Madonna dei dolori, che era venerata nella chiesa annessa alla scuola). L’istituto si proponeva di venire incontro soprattutto alle esigenze educative delle ragazze dei piccoli centri di campagna, ignorate dalle istituzioni statali.
Il regolamento conteneva riferimenti alle regole di Sant’Agostino (ricordo del monastero di Pietrarubbia), delle Maestre Pie Venerini e delle Canossiane, ma armonizzati dall’intento di realizzare nella comunità una vita religiosa fatta di lavoro, di preghiera nella pace domestica e nella carità fraterna. Alcune caratteristiche di fondo costituiscono l’essenza del carisma dell’istituto. Ad esempio, «insegnare la dottrina cristiana un’ora al giorno… non vietare mai l’ingresso a quelle che devono essere istruite, anche se adulte… senza distinzione di età e di condizione sociale… accogliere tutti con dolcezza, mansuetudine e carità». Anche dagli appunti che Elisabetta ci ha lasciato emergono i tratti salienti di una spiritualità che conquistava soprattutto per l’esempio che ne dava lei. Si tratta di pensieri espressi in forma personalissima e originale: «Io porto Colui che mi porta», diceva ad esempio quando aveva fatto la Comunione: «Quando un’anima ha degnamente ricevuto il sacramento dell’Eucaristia, nuota nell’amore; essa è umile, dolce, mortificata, caritatevole e modesta, con tutti concorde; è un’anima capace dei maggiori sacrifici… non è più quella di prima… Il Signore è con te dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina. Tu soffri? È una divina mano che ti dà la sua croce; quando lavori, Egli è lì per risparmiarti metà di pena; quando piangi, Egli ti si avvicina per asciugarti le lacrime; quando preghi, è Lui che prega con te». E aggiungeva un’esportazione che è diventata uno slogan per le Maestre Pie dell’Addolorata: «Allegra, perché sai che il buon Dio ti ama!».
Intanto l’Istituto apriva nuove case; l’ultima, vivente la Renzi, fu quella di Mondaino, che cominciò la scuola nella primavera del 1856. La salute della fondatrice andava peggiorando sempre più a causa di una grave forma di laringite tubercolare; lei stessa se ne rendeva conto, guardando alla prossima fine con grande serenità e in continua preghiera: «Com’è bello l’angelo della morte» disse il 29 luglio 1859, «è quello che ci porta in cielo!». Il 14 agosto ricevette per l’ultima volta la comunione, esortò le consorelle ad essere fedeli alla vocazione e verso le otto del mattino sussurrò: «Io vedo!... io vedo… io vedo!» e spirò. Giovanni Paolo II l’ha beatificata il 18 giugno 1989.
Angelo Montonati