06/11/2012
Il teologo Giuseppe Pulcinelli. Nella foto di copertina: incomunicabilità (foto Thinkstock).
Nell’episodio della torre di Babele (Gen
11,1-9), Dio confonde le lingue: come mai lui
che vuole l’unione tra i popoli e l’accoglienza
dello straniero, immette nel mondo una delle
cause più rilevanti di divisione?
Giulio M.
Il racconto intende rispondere all’obiezione
che sorgeva nel lettore dopo aver appreso
dell’unica origine della famiglia umana (Gen
10), quando invece constatava l’esistenza di
popoli aventi lingue diverse e che vivevano
in ostilità. Si tratta, dunque, di un’eziologia,
come si ricava anche dall’interpretazione finale
del nome della città (v. 9: “Babele”, Babilonia,
ha assonanza con il verbo ebraico balal,
“confondere”; in realtà deriva dall’accadico
bab-ilu, “porta di Dio”). L’autore si esprime
nel linguaggio mitico del “castigo” di Dio,
che interviene a confondere e dividere, per
mostrare come sia destinato al fallimento il
progetto umano di autoglorificarsi ergendosi
al livello divino (v. 4: «una torre la cui cima
tocchi il cielo, facciamoci un nome»). Inoltre
fin dalla creazione Dio era intervenuto affinché
proprio a partire dalla diversità – e non
dall’uniformità – si tendesse
all’armonia e all’unità. Vi è anche
una sottile ironia nei riguardi
della religione babilonese
in cui le alte torri (ziqqurrat,
tipica delle città mesopotamiche)
rappresentavano l’abitazione
del dio nazionale.
Giuseppe Pulcinelli