I peccati e la fede della Chiesa

28/03/2011

Nella Messa il sacerdote si rivolge al Signore e chiede: «Non guardare ai nostri peccati ma alla fede della tua Chiesa». Che cosa si intende qui per Chiesa?
Luigi G. - e-mail

«Signore Gesù Cristo... non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa e donale unità e pace secondo la tua volontà». Questa espressione che si trova nella preghiera che il sacerdote pronuncia nella Messa a nome di tutta l’assemblea, prima del rito della pace, può suscitare un legittimo interrogativo: la Chiesa non siamo forse noi? A quale Chiesa dovrebbe rivolgere il suo sguardo il Signore?

Per meglio comprendere il senso di questa espressione è opportuno fare un passo indietro nella storia. Dal secolo XI fino alla riforma conciliare del Messale (1970), questa orazione era recitata dal sacerdote privatamente e sottovoce usando la prima persona singolare. Tale orazione, quale preparazione privata del sacerdote al segno di pace, gesto che prima della riforma era riservato al clero e agli accoliti all’interno del presbiterio, intendeva ribadire la domanda già presente nella preghiera (anch’essa allora privata) che segue il Padre nostro: «concedi la pace ai nostri giorni».

Come in tante altre preghiere private (apologie) che si erano aggiunte nella Messa durante il Medioevo, anche in questa il sacerdote manifesta la propria indegnità nel presentare a Dio la supplica per tutto il popolo, distinguendo opportunamente il suo stato personale di vita cristiana dalla santità di Cristo che prega con la voce della Chiesa, suo corpo sacramentale.

La riforma di Paolo VI (1963-1978) stabilì che questa preghiera fosse recitata ad alta voce dal sacerdote per coinvolgere in questo stesso atteggiamento tutta l’assemblea e fosse chiaro che la preghiera liturgica è in primo luogo preghiera di Cristo. Per questo tutte le orazioni liturgiche si concludono con la frase «Per Cristo nostro Signore».

Nella preghiera liturgica non prevalgono i nostri peccati, ma i meriti e la santità di Cristo. Per questo i fedeli durante le orazioni liturgiche stanno in piedi, cioè come figli davanti al padre e non come schiavi davanti al padrone. E questo in forza di quel Battesimo che nessuna nostra infedeltà potrà mai cancellare perché anche se noi «siamo infedeli, lui (Dio) rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso» (2Tm 2,13). Il suo amore non viene mai meno e se il nostro cuore ci rimprovera giustamente qualcosa, «Dio è più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20).

Questa è la fede della Chiesa. Nella liturgia la nostra voce, per quanto indegnamente, diventa voce di Cristo. Pertanto, pregare il Signore di non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della sua Chiesa, non è semplicemente un doveroso atto di umiltà, nella consapevolezza delle nostre personali infedeltà; è soprattutto un atto di fede nell’insondabile mistero di un Dio che ci ha voluti fragili perché conoscessimo la gioia dell’amore che perdona e che non dimentica mai la nostra dignità di figli, per quanto sfigurata dal peccato.

Pertanto, fare appello alla fede della Chiesa significa riconoscere che la Chiesa non è solo l’insieme dei battezzati, ma li trascende perché in essa è presente la santità di Cristo che intercede sempre per noi (cf Rm 8,34; Eb 7,25).

Di conseguenza «tutti i membri della Chiesa, compresi i suoi ministri, devono riconoscersi peccatori. In tutti, sino alla fine dei tempi, la zizzania del peccato si trova ancora mescolata al buon grano del Vangelo. La Chiesa raduna dunque dei peccatori raggiunti dalla salvezza di Cristo, ma sempre in via di santificazione» (Catechismo della Chiesa cattolica, 827).

Lo scambio della pace di Cristo prima della Comunione non intende esprimere una realtà già pienamente raggiunta, ma un seme che siamo chiamati a sviluppare con la luce e la forza dello Spirito Santo.


Dizionario minimo

Apologia
Termine di origine greca che significa difesa e con il quale nel Medioevo venivano indicate alcune preghiere che il sacerdote recitava sottovoce nella Messa per domandare perdono.

Accolito
Dal greco akòlytos (= compagno di viaggio), è il termine applicato al ministero istituito di chi serve all’altare, sovente svolto dai ministranti di fatto.

Presbiterio
È lo spazio all’interno del quale si erge l’altare e che di norma è occupato dai presbiteri, mentre lo spazio dei fedeli è chiamato navata o aula.

Silvano Sirboni
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Postato da operitaly il 06/01/2012 13:02

Sono daccordo con il fatto che nessuno di noi è perfetto, ma c'è una grande differenza tra un "Ministro di Dio" che decide di seguire il Vangelo anche se non riuscirà sempre a fare "centro", ed un'altro che pur sapendo che ciò che sta seguendo, non è il Vangelo ma una religione, molto spesso contraria al Vangelo, e decidere di continuare nella sua eresia e spesso nella sua "omosessualità e nella sua Pedofilia! Certi peccati, pur se con sincero pentimento potrebbero essere perdonati, pure squalificano il ministro che si è macchiato di tali peccati, perchè come dice Paolo, farebbe perdere la potenza alla Parola di Dio quando la ministra! Ricordiamoci che il Re Saulle, perse il regno e la grazia di Dio, per ciò che noi chiameremmo un piccolissimo ed insignificante peccato! (1 samuele 15.)

Postato da Andrea Annibale il 29/03/2011 04:20

Mi pare che la Chiesa di Dio è sempre “popolo in cammino” come il popolo d’Israele in Esodo. In che senso in cammino? Il Papa ha detto che la confessione è un mezzo di santificazione, concetto santissimo che mi trova completamente d’accordo. Chiediamo dunque a Dio di non ostacolare questo cammino di perfezione, per diventare perfetti come perfetto è il Padre celeste. Cioè perfetti in senso evangelico. Chiediamo anzi a Dio di accompagnarci lungo questo cammino di perfezione. Io ho sempre capito ed inteso in questo senso la formula che si commenta.

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