21/04/2011
San Paolo dice che a causa di un solo uomo il peccato e la morte sono entrati nel mondo, temo, invece, che l’uomo e questo mondo siano rimasti vittime di una tragedia assai più grande di loro.
Giuliano B. - Montelupo Fiorentino
Il mistero del male ci circonda e ci sovrasta. L’«immane potenza del negativo» – come Hegel definisce la morte – ci rende impotenti e pensosi. Da un lato ci sembra del tutto insufficiente una spiegazione che attribuisce a noi stessi la causa del male del mondo, d’altra parte ci deresponsabilizzerebbe, consegnandoci a un ineluttabile destino, il pensiero che il male sia una sorta di superpotenza che si impone con forza, prescindendo sempre e comunque da noi stessi e soprattutto dalla nostra volontà libera.
La rivelazione cristiana ci offre una risposta che, se accolta nella fede, ci consente di non soccombere e di nutrire di non vana speranza le nostre spesso insulse giornate. La caduta originale e originante dell’essere umano produce ferite tanto profonde da non poter essere rimarginate con il ricorso alla volontà libera dell’uomo stesso, che ne risulta radicalmente compromessa, anche se non completamente distrutta.
In questo senso si può pensare il dominio di Satana sul mondo e sull’uomo. Un dominio che tuttavia non può considerarsi assoluto, in quanto l’universo, la storia e l’uomo non hanno origine da una sorta di movimento di caduta dalla luce alle tenebre, dal bene al male, dal positivo al negativo, né da un autonomo principio del male, contro cui quello del bene sarebbe chiamato a lottare. I racconti biblici delle origini escludono radicalmente una prospettiva gnostico-dualistica nel narrarci la creazione.
Perché l’uomo potesse abitare il mondo e di nuovo orientarsi nella storia senza soccombere alla disperazione, bisognava che un atto di volontà libera e totale vincesse il peccato e, con esso, la morte. La libertà pienamente libera di Gesù di Nazaret ha operato questa redenzione più radicale del peccato stesso.
Così – citando un passo dell’Antico Testamento – nella Lettera agli Ebrei leggiamo che «entrando nel mondo, Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10,5-7).
In questo modo si realizza quanto Paolo proclama con la profonda convinzione che gli viene dalla fede in Cristo Gesù: «La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, perché come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore» (Rm 5,20-21).
La piena consapevolezza della condizione umana, segnata dal peccato, da sola non è sufficiente a redimerci, così come portare a coscienza quanto ribolle nell’inconscio, sebbene costituisca un primo necessario passo in avanti, non produce alcuna salvezza, se non vi subentra la decisione.
In questo senso la redenzione operata da Cristo non ci deresponsabilizza, ma diventa appello alla nostra volontà che, abitata dalla grazia, sa di poter vncere il male e la morte. L’atto di fede dell’uomo, consistente nell’abbandono fiduciale alla salvezza che Gesù incarna, poggia sull’atto di totale abbandono che egli ha compiuto e vissuto nella sua vicenda storica e soprattutto nel momento della sua passione e della sua morte in croce.
«Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 9-11).
Pino Lorizio