Il senso del martirio cristiano

23/01/2012

Se oggi ci fossero le persecuzioni dei primi secoli contro i cristiani, io non me la sentirei di essere sbranato dai leoni del circo e rinnegherei la fede cristiana. Già ho immaginato di dover scegliere tra il leone e la fedeltà alla fede e ho rinnegato la fede e ho perso la grazia di Dio lucidamente. Sono in situazione di peccato?
Salvatore U.

Non è facile e forse neppure possibile giudicare chi, pressato dalla tortura e dalla possibilità di subire una morte atroce, giungesse a rinnegare la fede. Sia l’atto del credere come il suo rifiuto richiedono, infatti, l’esercizio della volontà libera, che non sappiamo quanto compromessa o annullata da simili prospettive. Credere nonostante tutto e affrontare anche la persecuzione, che non è solo fisica, ma può essere anche psicologica e morale, richiede una grazia particolare, che non sappiamo di avere se non ci troviamo in tali situazioni.

La nostra, invece, nella maggior parte dei casi è la situazione di chi è chiamato a vivere il martirio in senso diverso, che è poi il senso etimologico della parola greca. Originariamente, infatti, il martirio non ha a che fare con la morte, significando appunto il termine greco “testimonianza”. E quando comporta la morte, il martirio cristiano (che nella teologia talvolta viene descritto come la morte cristiana per eccellenza) viene a realizzarsi storicamente nel contesto della persecuzione, ossia della sofferenza e della morte che i cristiani subiscono a motivo del loro credere. Il martirio cristiano ha innanzitutto a che fare con la struttura testimoniale della fede e con una verità che viene attestata da una persona: il testimone.

In rapporto al testimone, nel caso della fede cristiana, egli si identifica col Cristo stesso, «il testimone fedele» (Ap 1,5), sulla cui testimonianza culminante nel mistero pasquale si fonda il rapporto di Dio con l’uomo. Questa testimonianza fondamentale del Cristo non risulta circoscritta nello spazio e nel tempo della sua presenza nella Palestina di circa duemila anni or sono. Essa giunge fino a noi attraverso una catena ulteriore e subordinata di testimonianze, con cui ha a che fare l’intelligenza credente, la quale si assume il compito di vagliarle sommariamente (a livello di fede semplice), in maniera critica e più “sofisticata” (a livello di sapere teologico). A sua volta il credente si trova a far parte, come singolo e come comunità, di questa catena di testimonianze, sicché oltre che ricevere è chiamato a offrire, con la propria coerenza di vita e con l’esercizio della propria intelligenza, ulteriori motivi di credibilità al messaggio.

Non si tratta evidentemente di sottoporre al vaglio della ragione i monumenti della fede, istituendo una sorta di tribunale chiamato a giudicarli, bensì di scavare l’intrinseca ragionevolezza della fede stessa, mostrandone l’intelligibilità. Il carattere testimoniale della fede, fondato sulla testimonianza di Cristo, trova un suo luogo privilegiato nella comunità credente, per cui la fede teologale non può non assumere una valenza ecclesiale e comunitaria, essendo trasmessa nella comunità e vivendosi in essa, sicché la credibilità della Chiesa costituisce un elemento non marginale rispetto all’affidabilità del Dio di Gesù Cristo. Non siamo soli nel testimoniare la nostra fede.

Se il senso del martirio cristiano sta nella “testimonianza”, allora 1) il martirio cristiano non ha nulla a che vedere con il fondamentalismo di qualsiasi genere e 2) la sua realizzazione suprema nel dare la vita per Cristo non esprime alcun fanatismo ideologico, ma la semplice coerenza del testimone col contenuto della propria testimonianza (l’evento pasquale). La morte del martire è quindi paradigmatica dell’esistenza credente nel suo quotidiano esprimersi e realizzarsi: «Il martirio il più difficile non è quello che ti dà la morte per un atto di virtù passeggera, a cui può supplire talvolta un affetto impetuoso; ma quello che sostiene con serenità e costanza d’animo le afflizioni, i travagli e la lenta agonia della vita» (Vincenzo Gioberti).

In questa prospettiva il riferimento ai martiri e alle loro storie, risulta decisivo e oltremodo significativo nella perenne ricerca di quel fondamento, che, come uomini e come credenti, non possiamo non aver presente, se non vogliamo che la nostra esistenza si rassegni al disorientamento e allo sfondamento, ossia alla insensatezza. Nel martire infatti si esprimono sia la lontananza originaria e il rimando ad una vita altra dalla presente, sia la libertà profondamente vissuta ed esperita, di fronte alle coercizioni dei vari poteri di turno.

Pino Lorizio
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Postato da giusgott il 22/02/2012 22:09

La risposta di Pino, mi associo, è completa ma... è troppo perfetta. Nella richiesta di Salvatore vedo la mia giovinezza quando in Parrocchia alla catechesi della domenica vedevamo le "filmine" con le persecuzioni dei cristiani. E Ursus fortissimo e tutti gli altri che prendendo il coraggio dell'incoscienza salivano sui patiboli. Da piccolo avrei voluto la forza di tanti eroi per scacciare e schiacciare leoni e tori (e liberare fanciulle!) ma in seguito l'idea di mandare a quel paese l'imperatore che mi chiedeva l'abiura della fede cristiana ha cominciato a far capolino ed è andata sempre più rinforzandosi con l'avanzare dell'età. C'è voluto del tempo per giungere a San Paolo e desiderare anch'io di andare dal Padre lasciando questa valle di lacrime. Magari un po' prima del tempo, evitando quei lunghi anni alla casa di riposo e facendo una pernacchia all'imperatore di turno.

Postato da Andrea Annibale il 25/01/2012 23:59

Il commento di Pino Lorizio mi sembra così perfetto da non richiedere nessuna aggiunta. Mi limito a ricordare la bella distinzione tra “martirio sopportato nello spirito” e “martirio sopportato nello spirito e, insieme, nell’azione”, distinzione tracciata da San Gregorio Magno nell’omelia 35 al capitolo 7. Siamo martiri perché Satana è il principe di questo mondo. Se non fosse così, regnerebbe la pace e nessuno dovrebbe soffrire per la propria fede. Satana, poi, è principe di questo mondo perché gli abbiamo aperte le porte con il Peccato Originale. Quindi, la rosa che è Cristo ha delle spine che sono date dalla presenza del diavolo di fronte alla quale dobbiamo perseverare fino alla fine per avere la corona della vita (Apocalisse 2, 10). Nel caso segnalato dal lettore, non credo ci sia apostasia, a meno che Gesù, rinnegato con la bocca, sia rinnegato in modo stabile anche con il cuore. Facebook: Andrea Annibale Chiodi; Twitter: @AAnnibale.

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