16/05/2011
Per giustificare la legge sul testamento biologico c’è chi sostiene che, non avendo deciso io di venire al mondo, non sono io il padrone della mia vita. Ma perché dovrebbe esserlo lo Stato, che addirittura si identifica con Dio?
Attilio D. - Genova
«Che non sia io il padrone della mia vita», prima di una teoria (o di teorie), è anzitutto un’esperienza: senza ricorrere a sottili ragionamenti, l’essere umano si rende conto che la vita non è sua fabbricazione o costruzione; non se l’è data, l’ha ricevuta. Se credente, risale alle origini della creazione dell’universo che ha, per culmine e vertice, l’uomo e la donna. D’altra parte, la verità della creazione non è contraddetta dall’eventuale evoluzione che ha, come punto di partenza, non il caso ma un disegno intelligente.
Anche il non credente sperimenta che la vita non viene da lui, ma da altri. «La vita ci viene da altri. «Noi esistiamo», scrive un filosofo contemporaneo non credente, «perché essa ci è stata donata». In particolare l’inizio e il termine sono momenti nei quali, in tutta evidenza, si percepisce la non padronanza della propria vita: non ci è chiesto il consenso per entrare nel mondo e nemmeno per uscirne. È un’esperienza comune. Riconoscere tale dipendenza è l’atteggiamento del credente, ma anche del non credente, che è aperto o almeno non pregiudizialmente chiuso al Trascendente. Si riconosce, così, che la libertà (autonomia. autodeterminazione) non è assoluta e incondizionata fino a decidere autonomamente quando morire.
All’esperienza della vita ricevuta (donata) da altri, da Altro, se ne accompagna strettamente una seconda: il soggetto umano è consapevole - e soltanto lui tra i viventi - che la vita (l’esistenza) è ora nelle mani, è sua, gli appartiene. Vivere è un diritto che nessuno gli può togliere; non è un diritto concesso dallo Stato, ma è un diritto che lo Stato deve riconoscere.
L’essere umano sperimenta, così, di avere un «dominio», sulla propria vita, ma è un dominio dal basso che si collega a quello alto; è una signoria che rinvia alla Signoria con la maiuscola. Così il pensiero filosofico e teologico riconosce che l’essere umano non è padrone ma amministratore della propria vita, come pure dei beni terreni messi a disposizione sua e di tutti i viventi. All’amministratore si chiede, come minimo, che non dilapidi arbitrariamente il patrimonio ricevuto, lo conservi e possibilmente lo accresca.
In questa prospettiva, è efficace la visione del teologo protestante, E. Jüngel: «Ogni essere umano, uomo e donna, ha un suo tempo di vita, affinché nel suo tempo possa compiere la sua storia». E aggiunge: «Delimitare il tempo della vita è cosa di Dio e soltanto di Dio. Nessun individuo, nessuna istituzione, nessuna giustizia ha il diritto di delimitare il tempo finito della vita umana».
Lo Stato si dimostra padrone della vita quando promulga leggi che consentono o autorizzano qualcuno (il medico) a dare o procurare la morte su richiesta. Si può comprendere (senza per altro giustificare), l’individuo che, in condizione di estrema malattia irreversibile, domanda di essere aiutato a morire o che addirittura ritenga che sia un diritto da riconoscere. Alla drammatica domanda, lo Stato non può moralmente e giuridicamente soddisfare, semplicemente perché non è padrone di quella vita e di nessuna vita.
Lo Stato democratico e laico è chiamato attualmente a fare una legge per regolare il testamento biologico. Si tratta di colmare un vuoto normativo per determinare giuridicamente i diversi diritti-doveri che, insieme, possono assicurare la dignità del morire umano. Anzitutto occorre determinare, per legge, il principio di autodeterminazione del paziente sulle cure mediche da accogliere o da rifiutare (art. 32 della Costituzione); il ruolo del medico che deve ascoltare la volontà del paziente ma che, d’altra parte, non può ridursi a esecutore passivo; il diritto-dovere della società di non abbandonare il malato terminale e, quindi, garantire a tutti le cure ordinarie e i trattamenti di sostegno vitale.
Detto più chiaramente, una legge sul testamento biologico è giusta se esclude l’eutanasia; se legittima il rifiuto di quanto va sotto il nome di accanimento terapeutico (cure sproporzionate, inutili ed eccessive); se stabilisce l’obbligatorietà delle cure ordinarie e, in linea generale, anche l’idratazione e l’alimentazione artificiali.
In applicazione corretta dell’eventuale norma, resta fondamentale il rapporto medico-paziente-familiari, che è il luogo irrinunciabile dove trovare, nella situazione concreta e nella sua evoluzione, la soluzione più giusta per il bene del paziente. Si richiede, pertanto, scienza e sapienza per valutare quando la tecnica giova alla salute e alla vita e, all’opposto, quando è solo dannosa.
La società e, per essa, lo Stato non può limitarsi al duplice e necessario divieto dell’eutanasia e dell’accanimento terapeutico. Deve impegnarsi, in positivo, con iniziative concrete per l’umanizzazione del morire: istituire strutture ospedaliere che non solo danno cure, ma si prendono cura del malato terminale; aiutare, anche economicamente, le famiglie che assistono malati gravi e, tra questi, le oltre tremila persone in stato vegetativo persistente. È questo lo Stato civile che occorre tradurre nella realtà della nazione, dell’insieme delle nazioni e a livello globale.
Luigi Lorenzetti