06/08/2010
Ho seguito le celebrazioni sull’Anno paolino, conclusosi senza che nessuno accennasse alle tante affermazioni misogine di san Paolo. Se penso a lui non mi vengono in mente la caduta da cavallo, l’inno alla carità e la missionarietà, ma la sua cnclamata disistima per le donne.
Giusi C. – e-mail
Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-35; e in Gal 3,28
Negli scritti sicuramente autentici di Paolo i brani che fanno più problema, specialmente se accostati tra loro, si trovano nella stessa lettera, la 1Corinti. Il primo è quello in cui egli tratta dell’acconciatura delle donne nelle riunioni di preghiera (11,2-16), il secondo è quello in cui ordina alle donne di tacere nell’assemblea (14,33-35).
Per il brano di 1Cor 11,2-16, conosciuto soprattutto con il titolo tradizionale “il velo delle donne”, la difficoltà maggiore è data soprattutto dal v 10, una vera crux interpretum: traducendo letteralmente dal greco: «per questo la donna è tenuta ad avere un’exousia (potere, autorità) sul capo a causa degli angeli».
Tra le numerose ipotesi interpretative, che non ci mettiamo ora a elencare e valutare, una delle più convincenti è quella in cui “avere un’exousia” viene tradotto con “avere sotto controllo”, e il resto va inteso in questo senso: «per questo (quando la donna profetizza – cf. v 5) deve avere sotto controllo la sua acconciatura»; cioè le donne quando fanno interventi pubblici nella comunità (profetizzano o pregano in assemblea) devono tenere un abbigliamento e un’acconciatura decorosa, in particolare devono coprirsi la testa.
Questa indicazione di Paolo non avrebbe soltanto l’intenzione di regolare il modo di comportarsi (e di abbigliarsi) delle donne, ma soprattutto di contrastare un tentativo di annullare quelle differenziazioni sessuali – di cui la capigliatura è manifestazione tra le più immediate – insite nella natura stessa; in un ambiente di facili costumi come quello della città di Corinto (in cui era diffusa anche l’omosessualità), quest’uso poteva favorire una certa indistinzione e promiscuità, con gravi e prevedibili conseguenze, sia sul versante morale che su quello della testimonianza.
È per questo, molto probabilmente, che Paolo richiede che la donna che profetizza non deve perdere ciò che per la cultura del tempo rappresenta un contrassegno forte di femminilità. Ma richiedendo questo, allo stesso tempo egli ammette chiaramente che la donna possa parlare pubblicamente nell’assemblea (cf. v 4); ciò è da tenere presente, quando si va a interpretare nel capitolo 14 la celebre frase: «le donne nelle assemblee tacciano» (1Cor 14,34; cf. anche il v 35). Come risolvere il problema?
Una soluzione possibile è quella che sottolinea la diversità di soggetti o di tipo di discorso tra i due brani. In 1Cor 11 si tratterebbe di un parlare orante e profetico delle donne, in 1Cor 14 Paolo rimprovererebbe un parlare disordinato e confusionario che reca disturbo all’assemblea e non la edifica. D’altra parte la stessa ingiunzione a tacere Paolo la usa nei confronti del glossologo (chi aveva il dono di parlare in lingue straniere) se nell’assemblea non c’è chi possa interpretare il suo parlare il lingue con il Signore (14,28).
Qui più che mai vale comunque il principio generale che occorre fare attenzione a non isolare un testo, tanto più bisogna guardarsi dall’assolutizzarlo e poi identificare il pensiero di chi l’ha scritto con quel testo lì. Quindi è sicuramente sbagliato – oltre che improprio dal punto di vista metodologico e contenutistico – prendere questo testo («le donne tacciano nelle assemblee») per riassumere il pensiero di Paolo sulle donne.
(2 – continua)
Giuseppe Pulcinelli