Il dono, vera risorsa dell'economia

L'economista Luigino Bruni ha spiegato cosa c'entrino solidarietà e dono con l'economia. Una lezione importante per i nostri tempi di crisi.

27/03/2012
L'economista Luigini Bruni
L'economista Luigini Bruni

«La dimensione del dono è l’assente ingiustificato della nostra economia, il grande elemento da recuperare per risanare nel profondo l’economia italiana». Luigino Bruni, professore associato di Economia politica all’Università Bicocca di Milano, è stato il protagonista ieri sera del terzo incontro dei “Lunedì in famiglia”, organizzati da Famiglia Cristiana in collaborazione con la diocesi di Milano e le Acli presso l’Auditorium Giacomo Alberione di via Giotto a Milano per prepararsi insieme al Family 2012. Il tema, “Dono e solidarietà: motori dello sviluppo economico”, poteva risultare a un primo approccio “scandaloso”: cosa c’entrano “solidarietà” e “dono” con l’economia?

«L’economia italiana di questi anni fa fatica a vedere il dono come risorsa», ha spiegato Bruni, «un tradimento alla nostra grande tradizione economica che per secoli ha valorizzato la dimensione sociale del lavoro. Ha così illustrato la differenza tra il nostro modello “cattolico” di economia e quello anglosassone: «Il modello capitalistico oggi prevalente è legato alla mentalità protestante, che vede il business e il momento filantropico come decisamente separati, senza osmosi reciproca: Bill Gates, ad esempio, come imprenditore fa business e poi, come privato, ha creato una fondazione per la beneficenza, decisamente separata dalla prima». Il modello economico italiano e più in generale cattolico invece ha sempre naturalmente considerato intrecciate le dimensioni del lavoro con quella della solidarietà: il lavoro, in altri termini, ha in sé una sua eccedenza rispetto al solo “business”. Sebbene, ha specificato Bruni, negli anni si sia poi ammalato: «Mafia, familismo amorale e statalismo ne hanno minato le basi», ha specificato.

«L’economia di comunione, che oggi interpreta al meglio questa eccedenza, riguarda solo l’1% delle persone e, per non rimanere marginale, deve essere riportata nei dibattiti pubblici, politici, economici», ha esposto. Insomma, Il dono può essere fattore per lo sviluppo? «Si, ma non a prezzo zero, il lavoro è veramente tale quando è eccedente rispetto a quanto previsto dal contratto, quando nel mio lavoro è incorporata la virtù del lavoro ben fatto, che va oltre la retribuzione e mi riempie di soddisfazione», un bene evidentemente non valutabile. Insomma, la parola d'ordine è: "ripristinare un’etica delle virtù a prescindere dalla monetizzazione". «Mentre lavoro vivo il dono», ecco il segreto.

«Oggi viviamo il paradosso dell’incapacità dell’impresa a riconoscere il dono e allora “compra” la persona, illudendosi di comprare anche il cuore, come succede per le società di consulenza, che pagano molto chiedendo una vita senza orari, ma uccidendo così la persona, intristendola». Il dono, quindi, non è un “di più”, qualcosa di superfluo, ma rientra nel “doveroso”, «solo così ridiventa fattore di sviluppo». Tutto da rivedere? Tutto no, molto però si, a partire dalla finanza, che «è un moloch pur se non dovrebbe esserlo, se è vero che la fabbrica non è più il luogo principale della creazione della ricchezza, perché vale il 15% della ricchezza, mentre tutto il resto è prodotto dalla finanza, che è degenerata e va riportata nella giusta misura». Le cifre confermano che occorre passare, come si sta cercando di fare in Francia, dal considerare il benessere come semplice contabilizzazione del Pil al benessere come somma di situazioni che riguardano una gamma più ampia di “beni relazionali”: la salute, l’educazione, le attività personali, la libertà di opinione,  la possibilità di partecipazione politica, le relazioni personali e sociali, l’ambiente, la sicurezza economica e personale.

Davide Pati del Progetto Policoro e membro di Libera
Davide Pati del Progetto Policoro e membro di Libera

Davide Pati del progetto Policoro e membro del comitato di presidenza di Libera ha parlato dei beni confiscati alla mafia e della loro trasformazione da da “beni posizionali”, «la cui permanenza serve solo per ostentare violenza e sopraffazione», a “beni relazionali”, che, appunto, «sono utilizzati per creare imprese sociali e mettono in relazione uomini, donne, gruppi, istituzioni». «Da 30 anni la legge sulla confisca voluta da Pio La Torre, ucciso dalla mafia nell’82 per questo motivo, ha restituito alla comunità oltre 10mila beni», ha rivelato il giovane. Quello che ormai non sorprende più nessuno è che la Lombardia, con 807 sequestri, è la quinta regione in Italia dopo le regioni meridionali e al terzo per numero di aziende sequestrate: 205. Un dato che deve far pensare chi si sentiva al sicuro.

Stefano Stimamiglio
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