Cina, così ti rieduco il vescovo

Monsignor Daquin, vescovo di Shanghai, chiuso in seminario. Decine di preti e suore ai corsi di "rieducazione". Il rapporto tra il governo di Pechino e la Chiesa cattolica resta teso.

06/10/2012
Cattolici cinesi in preghiera durante le Messa (foto del servizio: Reuters).
Cattolici cinesi in preghiera durante le Messa (foto del servizio: Reuters).

Un vescovo-blogger rinchiuso in seminario; preti e suore costretti a partecipare a noiose sessioni formative di “socialismo”; una comunità disorientata e divisa; un’impasse generale fra Chiesa e apparati governativi che, per ora, non lascia intravvedere vie d’uscita: è l'intricata situazione che si registra nella diocesi di Shanghai, la più importante della Cina, storico territorio da cui si è irradiato il messaggio evangelico nell’Impero di mezzo.


Le notizie delle “sessioni di rieducazione” a cui sono sottoposti da settimane, in turni regolari, clero e religiosi della diocesi fanno scalpore in Occidente ma, nella prassi del Partito comunista, sono un meccanismo trito e ritrito. Il personale della diocesi studia marxismo (tre giornate di lezioni, per 12 ore al giorno, all'Istituto per il socialismo di Shanghai) sbadigliando sui banchi di scuola, alternandosi con altri gruppi religiosi, dipendenti statali, lavoratori pubblici, netturbini e autisti di bus. 

La supposta “rieducazione forzata” non ha più l’impatto che aveva fino a decenni or sono e risulta un’arma che fonti nella Chiesa cinese definiscono ormai “spuntata”. Una sorta di riflesso condizionato degli apparati comunisti, che però resta spia del malessere e della grave condizione di stallo in cui è piombata la diocesi di Shanghai: un’impasse assurta a cifra simbolica della conflittualità, latente o patente, fra Governo cinese e  Chiesa cattolica, come declinatasi negli ultimi anni, soprattutto sul delicato tema della nomina e del riconoscimento dei vescovi. 

Paradossalmente, proprio la diocesi di Shanghai, al centro di una complessa vicenda di successione episcopale, dato il pensionamento del vescovo gesuita 95enne Aloysius Jin Luxian, sembrava aver imboccato una strada che gli osservatori si auguravano potesse fungere da esempio trainante per tutto il territorio cinese. Nel maggio scorso Thaddeus Ma Daquin, sacerdote quarantenne e già vicario generale, era diventato vescovo ausiliare nella diocesi più importante della Chiesa in Cina con il “riconoscimento parallelo” (perché non si può dire “concordato”) del Governo e della Santa Sede. 

Il vescovo ricopriva anche cariche all’interno della nota Associazione Patriottica (Ap), l’organo ufficiale, espressione del governo cinese, che controlla la chiesa cattolica, conferendole il riconoscimento e il crisma di ufficialità in Cina. Ma, nel giorno della sua ordinazione, Ma Daquin ha pubblicamente rinunciato agli incarichi all’interno della Ap, con un gesto clamoroso che in Vaticano e in Occidente è stato definito “coraggioso ed esemplare”. Negli ultimi anni infatti, la Santa Sede, dopo alcune nomine episcopali illegittime (cioè di vescovi scelti e imposti direttamente dalla Ap, senza riconoscimento papale), aveva invitato i vescovi cinesi a uscire dall’ambiguità e tagliare ogni contatto con la Ap. Indicazione, questa, puntualmente osservata dal vescovo Ma Daquin, che ha innescato la scontata reazione del Governo, che lo rinchiuso nel seminario Sheshan, impedendogli di svolgere qualsiasi compito pastorale e lasciandogli solo la possibilità di aggiornare il suo blog, che il vescovo usa per mantenere un rapporto spirituale con i fedeli. 

Il suo predecessore Aloysius Jin Luxian, per vent’anni ritenuto illegittimo e solo nel 2005 riconosciuto dal Vaticano, aveva invece adottato una strategia diversa: pur restando, nel suo cuore, fedele alla Santa Sede, non disdegnava rapporti contatti con gli organi delle comunità ufficiali, con l’idea che gli apparati della Ap potessero essere “svuotati dall’interno” se i suoi leader, gradualmente, fossero riusciti a ottenere l’agognato “riconoscimento parallelo”, che disinnesca il conflitto Cina-Vaticano in uno dei suoi aspetti decisivi, quello, appunto, della nomina dei vescovi. 

Sta di fatto che, dopo il “gran rifiuto” del vescovo Thaddeus Ma Daquin e la reazione del Governo, da mesi la vita pastorale della comunità ecclesiale di Shanghai è bloccata, con effetti devastanti per la popolazione cattolica, per il clero, per le relazioni fra comunità clandestine e riconosciute, per l’andamento generale della prassi liturgica, catechetica, amministrativa. Nel clero serpeggia il malcontento e si acuiscono le divisioni, mentre ferve il dibattito sulle possibili vie di uscita da una crisi che non giova a nessuno. 

Sullo sfondo, la celebrazione del prossimo Congresso del Partito Comunista che, nel novembre prossimo, rinnoverà la sua leadership ai massimi livelli. Un cambio della guardia che, si spera, possa portare una ventata di novità anche nei rapporti fra Cina e Santa Sede: perché lo stallo di Shanghai, ormai è evidente, necessita di una soluzione “creativa” che, da un lato, non faccia “perdere la faccia” al Partito e, dall’altro, rispetti la dottrina della Chiesa cattolica. Un banco di prova per i prossimi capi del Governo cinese e, perché no, anche per gli strateghi di Oltretevere.

Paolo Affatato
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