Chiesa e media, sospetti e fiducia

Don Giuseppe Costa, direttore della Libreria editrice vaticana, racconta in "Giornalismo e religione" 60 anni di storia dei rapporti tra Chiesa e media.

04/07/2012
Don Giuseppe Costa, direttore della Lev.
Don Giuseppe Costa, direttore della Lev.

“In tema di rapporti con i media, l'istituzione ecclesiale di colpe, non premeditate ma pur sempre tali, ne ha”. Sono parole di don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana. Si leggono nel volume intitolato Giornalismo e religione, che don Costa firma insieme con gli studiosi di media don Giuseppe Merola e Luca Caruso, edito proprio dalla LEV.


Si tratta di una particolare e preziosa antologia che ripercorre oltre 60 anni di informazione sul fatto religioso e ripropone 152 articoli firmati da 63 giornalisti vaticanisti e non solo, e 19 interviste a professionisti del giornalismo e della comunicazione italiani e stranieri. Uno spaccato di prime pagine che hanno fatto la cronaca, per esempio delle elezioni dei Papi, ma anche riflessioni, opinioni. Cronaca e fede si intrecciano in modo molto critico. Il volume è praticamente concentrato sulla stampa cartacea, con minimi accenni alla rivoluzione dei media elettronici e di Internet, con un saggio sul fotogiornalismo religioso, del fotografo Giovanni Chiaromonte, che offre un flash di riflessione sul valore delle immagini.

Don Costa nel suo saggio in apertura del volume, intitolato Dentro la notiziareligiosa, ripercorre quello che definisce il “non facile genere” dell'informazione religiosa e il “percorso non lineare” da parte della Chiesa. Non è un saggio sul rapporto tra Chiesa e comunicazione ma don Costa offre preziose linee interpretative del percorso, riconoscendo che l'istituzione ecclesiastica è passata “lungo il corso della sua bimillenaria storia da una condanna dei media alla loro esaltazione e, in entrambi i casi, spesso con scarsa acribia”.

Insomma “dal fiero sospetto alla totale fiducia”. Don Costa ricorda episodi di “pesante censura e interferenza” e sottolinea che “in Italia in particolare esiste una sorta di peccato originale, a causa del quale in materia di media si riscontra non di rado un effettivo sospetto tra Chiesa cattolica e mondo laico e viceversa”. Ricorda ragioni storiche di tutto ciò e, con le parole di Giacomo de Antonellis, stigmatizza “anni di disinformazione” tra “fogli di chiara impostazioneanticlericale ma ben anche fogli grondanti uno zelo pedestre”. 

Con autorevoli citazioni, indica un punto di svolta: il Concilio Vaticano II. Di fronte agli oltre 1.200 giornalisti interessati, la Chiesa cattolica il 6 ottobre del 1962 creò la vera e propria Sala Stampa, che oggi registra 400 giornalisti accreditati di cui solo 70 di testate cristiane. Dopo i primi momenti di “arroccamento intimorito” di una Chiesa che doveva comunicare gli sviluppi di una riflessione di “aggiornamento”, il Concilio – come scrive Gian Franco Svidercoschi - “obbligò la Chiesa a un generale ripensamento dei tradizionali metodi di approccio con la realtà religiosa”. Il Concilio non solo riprese e sviluppò il dialogo con il mondo contemporaneo ma lo fece facendo i conti con il mondo della comunicazione. 

Nel suo saggio, il direttore della Libreria Editrice Vaticana riporta pagine di diario di Henri Fesquet, protagonista dell'informazione di quegli anni: “I giornalisti hanno bisogno di fiducia. Il giornalista deve informare il mondo sulla Chiesa e la Chiesa sul mondo. Egli può e deve aprire la bocca e le orecchie della Chiesa. Egli non deve lasciarsi chiudere né la bocca né leorecchie”. A 50 anni dal Concilio è molto interessante rileggere tutto ciò. 


La copertina del libro di fon Giuseppe Costa, don Giuseppe Merola e Luca Caruso.
La copertina del libro di fon Giuseppe Costa, don Giuseppe Merola e Luca Caruso.

Gli anni post Concilio sono storia del proliferare di testate cattoliche e di sviluppo della figura del “vaticanista”. Don Costa argomenta sostanzialmente mettendo in guardia da alcuni rischi sia il fronte cattolico che il fronte laico. Dell'informazione religiosa prodotta da testate ed emittenti cattoliche dice che “spesso prevale la lode del convento”. Il buon giornalista in una testata cattolica – dice - “non dovrebbe essere né ateo né troppo devoto”. E poi fa una sottolineatura cbe sembrerebbe scontata ma che fa invece molto pensare: “Deve essere un ottimo professionista”. 

Sull'altro fronte, cioè quello dell'informazione religiosa assicurata dai media laici, lamenta l'eccessivo sensazionalismo e la riduzione della figura del vaticanista a “uno che segue le mosse del Palazzo e non la vita del popolo della Chiesa e i fatti religiosi in modo adeguato”. Ma per tutto questo tiene a sottolineare che troppo spesso si processa il singolo giornalista che invece oggi generalmente è anche più preparato del passato. 

Ma “sono cambiati – spiega - gli equilibri del lavoro per cui oggi una buona firma non ha comunque il peso che aveva all'interno di una testata 30 o 40 anni fa”. Oggi pesano di più le leggi di mercato, imperano il “sensazionalismo”, la “spettacolarizzazione” e la tendenza a una fuorviante “polarizzazione”. Su questo nel volume si offrono riflessioni interessanti. Su tutto lo spunto di Don Costa: “Il ruolo dell'opinione pubblica e quellodel giornalista sono problemi tuttora aperti”.

Non manca nel volume la considerazione dei momenti del papato di BenedettoXVI in cui la comunicazione ha significato le ripercussioni del discorso del Papa a Ratisbona o quelle in conseguenza della dichiarazione in aereo verso l'Africa aproposito di preservativi, o i fatti più recenti di documenti “rubati” che il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha definito dicendo che “anche il Vaticano ha avuto i suoi leaks, le sue fughe di documenti”. In generale dell'informazione religiosa Don Costa dice che “appare un'informazione a soggetto religioso per alcuni aspetti complessa, abbondante e carente al tempo stesso, per altri assente o per lo meno inadeguata alla piena descrizione di certi fatti”. 

E nel suo saggio Don Costa riporta le parole di Giancarlo Zizola, da poco scomparso, sulla necessità di “riscoprire e valorizzare effettivamente la funzione civile della libertà cristiana” in un periodo segnato da una “svolta globale e radicale dell'organizzazione dei saperi e dal caos antropologico”. Il buon giornalismo,dunque, dovrebbe difendere la coscienza civile, il senso critico della collettività, riscoprendo i valori della dignità e libertà di pensiero che il Cristianesimo porta con sè. Ma questo dovrebbe farlo quando si occupa di qualunque tema, non solo di religione.

Fausta Speranza
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