Il Papa: «Genitori, primi catechisti»

La famiglia è la prima scuola di fede per le nuove generazioni, ha detto Benedetto XVI nell'udienza generale del mercoledì: come parlare di Dio oggi, in una società troppo distratta.

28/11/2012
Questa fotografia e quella di copertina sono dell'agenzia Reuters.
Questa fotografia e quella di copertina sono dell'agenzia Reuters.

La famiglia è «la prima scuola per comunicare la fede alle nuove generazioni». Lo ha detto il Papa, che nella catechesi dell’udienza generale di oggi si è soffermato sullo “stile” comunicativo di Gesù, che «diventa una indicazione essenziale per i cristiani: il nostro modo di vivere nella fede e nella carità diventa un parlare di Dio nell’oggi, perché mostra con un’esistenza vissuta in Cristo la credibilità di quello che diciamo con le parole». Il Concilio, ha ricordato il Papa, parla della «responsabilità nell’educare» propria dei genitori, «primi catechisti e maestri della fede per i propri figli».

«Vigilanza, gioia, capacità di ascolto e di dialogo»: queste le virtù raccomandati ai genitori Benedetto XVI. «Vigilanza», ha spiegato, significa «saper cogliere le occasioni favorevoli per introdurre in famiglia il discorso di fede e per far maturare una riflessioni critica rispetto ai numerosi condizionamenti a cui sono sottoposti i figli», anche attraverso la «sensibilità nel recepire le possibili domande religiose» presenti nel loro animo. La comunicazione della fede, inoltre, per il Papa «deve sempre avere la tonalità della gioia», che «non tace e non nasconde la realtà del dolore, della sofferenza, della fatica, della difficoltà, dell’incomprensione e della stessa morte, ma sa offrire i criteri per interpretare tutto nella prospettiva della speranza cristiana».

«La vita buona è questo sguardo nuovo, questa capacità di vedere con gli stessi occhi di Dio ogni situazione», ha commentato Benedetto XVI, secondo il quale «è importante aiutare tutti i membri della famiglia a comprendere che la fede non è un peso, ma una fonte di gioia profonda, è percepire l’azione di Dio, riconoscere la presenza del bene, che non fa rumore ed offre orientamenti preziosi per vivere bene la propria esistenza». Infine, la famiglia «deve essere un ambiente in cui si impara a stare insieme, a ricomporre i contrasti nel dialogo reciproco, che è fatto di ascolto e di parola, a comprendersi e ad amarsi, per essere un segno, l’uno dell’altro, dell’amore misericordioso di Dio”. In questa prospettiva, ha concluso il Papa, «parlare di Dio vuol dire far comprendere con la parola e con la vita che Dio non è il concorrente della nostra esistenza, ma piuttosto ne è il vero garante, il garante della grandezza della persona umana».


«Come parlare di Dio nel nostro tempo? Come comunicare il Vangelo» ai nostri contemporanei, distratti «dai tanti bagliori della società?». Questi gli interrogativi al centro della catechesi dell’udienza di oggi, in cui il Papa ha ribadito che «non c’è salvezza della nostra umanità se non nel Dio di Gesù Cristo», nel quale «ogni persona trova la sua realizzazione».
«Parlare di Dio - ha spiegato il Pontefice - vuol dire anzitutto avere ben chiaro ciò che dobbiamo portare agli uomini e alle donne del nostro tempo: il Dio di Gesù Cristo come risposta alla domanda fondamentale del perché e del come vivere».

Papa Benedetto XVI. Foto Ansa.
Papa Benedetto XVI. Foto Ansa.

Per questo, «parlare di Dio richiede una continua crescita nella fede, una familiarità con Gesù e il suo Vangelo, una profonda conoscenza di Dio e una forte passione per il suo progetto di salvezza, senza cedere alla tentazione del successo, ma seguendo il metodo di Dio, quello dell’incarnazione, quello della parabola del granellino di senape». «Non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e la fa misteriosamente crescere»: questo l’invito del Papa, secondo il quale «nel parlare di Dio, nell’opera di evangelizzazione è necessario un recupero di semplicità, un ritornare all’essenziale dell’annuncio: la Buona Notizia del Dio-Amore che si fa vicino a noi in Gesù Cristo fino alla Croce» e alla Resurrezione che «ci apre alla vita eterna».

L’esempio additato dal Papa è quello dell’“eccezionale comunicatore” che fu l’apostolo Paolo, per il quale comunicare la fede «non significa portare se stesso, ma dire apertamente e pubblicamente quello che ha visto e sentito nell’incontro con Cristo, quanto ha sperimentato nella sua esistenza ormai trasformata da quell’incontro». «Per parlare di Dio», ci insegna Paolo, «bisogna fargli spazio, nella fiducia che è Lui che agisce nella nostra debolezza: fargli spazio senza paura, con semplicità e gioia, nella convinzione profonda che quanto più mettiamo al centro Lui e non noi, tanto più la nostra comunicazione sarà fruttuosa».

Una lezione, questa, che secondo il Papa «vale anche per le comunità cristiane», chiamate a «mostrare l’azione trasformante della grazia di Dio, superando individualismi, chiusure, egoismi, indifferenza e vivendo nei rapporti quotidiani l’amore di Dio». «Sono veramente così le nostre comunità?», si è chiesto il Santo Padre, che ha esortato a comunicare «come comunicava Gesù stesso», cioè «con lo sguardo pieno di compassione per i disagi e le difficoltà dell’esistenza umana». «La sua comunicazione - ha commentato Benedetto XVI - è stata una continua educazione a chinarsi sull’uomo per condursi a Dio». Gesù, nei Vangeli, «si interessa di ogni situazione umana, si immerge nella realtà del suo tempo, con una fiducia piena nell’aiuto del Padre».

Alberto Chiara
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