03/10/2012
L'aula del processo vaticano. Paolo Gabriele è il terzo da sinistra, con l'abito grigio (foto del servizio: Reuters).
Forse ha ragione il Lettore 02 che qualche giorno fa, commentando un nostro pezzo sulla “casta”, invitava anche noi giornalisti a fare un po’ di mea culpa. E in effetti, quando si farà il bilancio di questi anni e della smania arruffona e mentitrice che si è impadronita degli italiani, bisognerà pur dire qualcosa delle abitudini dell’informazione italica, che pure si vanta di concorrere a formare le coscienze.
Lo scriviamo da tempo: date un’occhiata a quanto e come si scrive del Vaticano, che pure ha le disgrazie sue. Andate a rispolverare, per esempio, che cosa si diceva dei rapporti tra la Santa Sede e Moneyval, l’organismo del Consiglio d’Europa che deve valutare la corrispondenza o meno delle legislazioni nazionali alle norme internazionali contro il riciclaggio di denaro. Capirete facilmente che ora non se ne parla più perché allora fu scritto, semplicemente, un fiume di sciocchezze.
Oppure fate passare qualche settimana e poi provate a rileggere quanto si scrive in questi giorni sul processo a Paolo Gabriele, il maggiordomo che passerà alla storia per aver trafugato documenti destinati alla o provenienti dalla scrivania del Papa.
Com’è ovvio, e come fanno tutti gli imputati che non possono negare di aver commesso il fatto, Gabriele parla d’altro. Apprendiamo che è stato maltrattato, forse torturato, in una cella dove non poteva nemmeno aprire le braccia e dove la luce era sempre accesa. Che illustri monsignori lo ispiravano, forse lo aiutavano. E che una vasta cerchia di persone e personaggi condivideva la sua “missione”.
Chi lo dice? Pensa un po’: lui stesso. Per i giornali più forcaioli, quelli che qualunque indagato dovrebbe dimettersi da qualunque carica, e se non ha cariche sprofondare dalla vergogna, basta e avanza: se lo dice Gabriele…
Gabriele che, naturalmente, agiva a fin di bene. Voleva riformare la Chiesa, salvare il Papa, riparare ai torti, riportare l’onestà (eh già, ci raccontano anche che a muoverlo fu lo sdegno per il “caso Viganò”, il segretario generale del Governatorato della Città del Vaticano poi promosso al ruolo di nunzio negli Usa), fors’anche raddrizzare le gambe ai cani e pettinare le bambole.
Il tutto tradendo il proprio datore di lavoro e la propria fede (perché Gabriele, s’intende, è un fior di cattolico, e dunque il Papa per lui non è solo fonte dello stipendio), e trafugando documenti per passarli a un giornalista.
Se il presidente Napolitano non accetta di divulgare un paio di nastri, c’è qualcosa sotto. Se il maggiordomo Gabriele divulga centinaia di documenti del Papa, c’è qualcosa sopra. E poi ci lamentiamo che la gente non legge i giornali.
Fulvio Scaglione