01/03/2013
Non sembri irriverente ma è accaduto anche questo, in quei minuti nei quali Benedetto XVI sorvolava Roma per andare a Castel Gandolfo. A molti romani quell’elicottero ha riportato alla mente qualcosa già visto, altrove. Già, ma dove? Alla fine, la memoria ha vinto e il ricordo è diventato nitido. Come in un percorso di andata e ritorno, infatti, a quei romani storicamente svezzati a fatti di ogni genere, è sembrato che stesse terminando un viaggio, certamente casuale e immaginario, ma ugualmente denso di significati. La partenza è datata 1960, anno in cui uscì nelle sale cinematografiche La dolce vita, di Federico Fellini. Ci furono polemiche al calor bianco su quell’opera che sarebbe diventata pietra miliare del cinema e foto indelebile di un’epoca: sputi verso il regista alla sera della prima milanese; interrogazioni parlamentari; qualche attacco dell’Osservatore romano; la generosa, appassionata difesa che il gesuita padre Angelo Arpa fece del regista riminese.
E qui interessa, a più di 50 anni di distanza, l’ennesima capacità “profetica” di Fellini nel rappresentare gli aspetti di vita minima del popolo italiano. Le immagini che Fellini ci ha lasciato coi suoi film finiscono quasi sempre per avere un riscontro anche nella realtà, e a questa casistica si lega anche l’ultimo viaggio di papa Benedetto XVI. La dolce vita si apriva con due elicotteri, il primo dei quali trasportava un Cristo dai Castelli romani verso il Vaticano, volteggiando sulle periferie a sud della capitale e sui tanti cantieri aperti in quell’epoca di boom edilizio. Il viaggio di papa Ratzinger ha avuto l’identico percorso, ma all’inverso: dal Vaticano ai Castelli, a Castelgandolfo. Lì una statua. Qui una persona. Lì una città in movimento che si animava di mille speranze. Qui la metropoli che assiste a un addio muovendo, disilluso, gli occhi all’insù. Le antichità ammirate da tutti, e poi i palazzoni delle periferie popolari, un po’ meno certe di passare alla storia e, infine, oltre l’Acquedotto Claudio, i primi contrafforti dei colli Albani.
Da lì partiva il Cristo felliniano verso la sua sede vaticana. Lì il
28 febbraio 2013 è arrivato l’uomo più vicino a Dio, che lascia il
Vaticano. Se ne La dolce vita l’intento era di mettere in
guardia – fin dalle prime immagini - da un possibile futuro fatto di
decadenza culturale e sociale, nel gesto di Benedetto XVI s’intravvede,
al contrario, il coraggio misericordioso di voler aprire una nuova era
proprio da un simbolico viaggio, che appare come un percorso a ritroso.
Chissà se il Papa avrà avuto voglia di guardare giù, su quella città,
“eterna” e sempre pronta a fare da spettatrice di ogni evento come fosse
la cosa più normale del mondo. Se l’ha fatto, e qualche occhiata, in
ogni caso, l’avrà pur data, avrà visto che là, sotto quell’elicottero,
non ci sono più ragazzi vocianti che seguono, festanti e in gruppo,
giocosi e felici, il volo, come li mostrava Fellini. Ma una società mista, anzi mischiata, di giovani senza occupazioni e anziani che per gli eredi non possono più fare alcunché;
donne e uomini di varie etnie, e un ambiente malaticcio, fatto di
cemento che ha divorato nell’indifferenza tutto il verde che poteva
ingoiare.
Quell’elicottero col Cristo a mani aperte era un invito, un
trampolino verso il futuro, bello o brutto sarebbe dipeso solo da noi.
Cristo sembrava benedire l’intera città. Quest’elicottero, invece,
ci invita a considerare come possa essere rivoluzionario il gesto di
sottrarsi, di saper fare, anche, un passo indietro. E se cinquant’anni
fa lo stimolo arrivava da parole come sviluppo e crescita, ora sembra
arrivare da parole come solidarietà e bene comune.
Manuel Gandin