13/12/2012
Vittorio Messori.
Che senso ha discutere di carrozzeria, accessori e colori quando si è appena fuso il motore? Il rapporto sulla fede di Vittorio Messori parte da una metafora automobilistica. «Dentro la Chiesa», spiega, «da decenni si litiga sulla maggiore o minore fedeltà al Concilio, fermandosi al contenitore, cioè a come si struttura l’istituzione ecclesiastica con più o meno collegialità, più o meno latino, più o meno morale tradizionale o impegno politico; peccato che nel frattempo la ricerca d’assoluto e il senso di Dio si siano affievoliti fin quasi a spegnersi».
Lo stile di sempre, quello del rigoroso cronista allergico ai punti esclamativi, Messori ha consegnato alle stampe il suo ventitreesimo libro, Bernadette non ci ha ingannati (Mondadori), nelle librerie da poco più di un mese. «È l’ennesima tappa di un percorso cominciato nel luglio-agosto del 1964, quando mi fu dato di scoprire il Vangelo. Questo, come gli altri volumi, dimostra che essere cristiani non significa essere cretini. Credere, infatti, non esime dal farsi domande. Accetta perfino il dubbio. Il credere autentico offre semmai delle risposte che non negano la ragione. Anzi, per dirla con Blaise Pascal, il grande autore francese del Seicento, correttamente usata, giunta al limite, la ragione ci obbliga a un passo: fare il salto, aprirsi al mistero».
– A dire il vero nel libro si parla di Lourdes, di apparizioni e della Madonna.
«Non è, o non è soltanto, un libro su Maria. È un libro sulla fede nel Vangelo. A Lourdes ci è stato fatto un grande dono: quello dimetterci a disposizione un appiglio provvidenziale, una salda maniglia».
– Una salda maniglia?
«Un appiglio cui attaccarsi quando la fede è in crisi. Maria non è un optional, roba da vecchi devoti. Porta al Figlio. Là dove la Madonna è dimenticata o irrisa, Gesù se ne va».
La Grotta di Lourdes.
– Perché indagare i fatti di Lourdes, oggi?
«Perché in questo frangente storico molte nostre chiese sono pressoché
deserte, mentre davanti a quella grotta sfilano, pregano, piangono e si
convertono 5-6 milioni di pellegrini l’anno. Sono tutti vittima di un
terribile imbroglio?».
– Quale risposta si è dato?
«Che ciò che è accaduto a Lourdes è vero. Tra l’11 febbraio e il 16
luglio 1858, per diciotto volte Maria è apparsa a una ragazzina alta un
metro e quaranta, asmatica, analfabeta, che non aveva frequentato il
catechismo né fatto la prima Comunione, il cui padre era finito in
carcere e la cui madre aveva fama di ubriacona. Bernadette Soubirous era
figlia del popolo e non dell’orgogliosa borghesia o della nobile
aristocrazia francese».
– I cristiani non sono obbligati a credere alleapparizioni mariane...
«Certo. La nostra fede si basa sulle apparizioni del Risorto agli
apostoli raccontate da quei bravi cronisti che sono gli evangelisti. Le
apparizioni sono un aiuto, un dono gratuito. Liberi noi di accettarlo o
meno. Maria fa il suo mestiere di mamma. In croce Gesù fu esplicito:
“Figlio ecco tua madre, madre ecco tuo figlio”. Ci ha affidati a lei, e
lei non ci abbandona. Non a caso le apparizioni approvate dalla Chiesa
avvengono in precisi momenti storici, quelli in cui sono a rischio la
fede e la Chiesa. Lourdes, nel 1858, segue il diffondersi delle teorie
di Charles Darwin, di Karl Marx, di Renan. Fatima, nel 1917, precede
(e annuncia) la Rivoluzione d’ottobre, ovvero
l’avvento del comunismo. Banneux, nel
1933, è coeva della salita al potere di Adolf
Hitler. Più vicino a noi, a Kibeho, in Rwanda,
la Madonna è apparsa tra il 1981 e il 1989, alla
vigilia dei massacri del 1994. C’è una sorta
di calendario mariano che accompagna la
storia. E conduce a Cristo. Siamo daccapo. Al
problema dei problemi. Il mondo ha perso
la fede o, quando ce l’ha, ce l’ha debole oppure
pasticciata».
– Rimedi suggeriti?
«Proporre il Vangelo, con convinzione e al
contempo con pacatezza e rigore. Senza scoraggiarsi
se il mondo lo rifiuta senza conoscerlo.
È tempo di ripresentare le ragioni per
credere. Dunque, ritengo che sia tempo di riscoprire
l’apologetica».
– L’ateismo è un vestito di moda...
«L’atesimo è, a sua volta, una religione.
Nella Torino dei miei maestri universitari, alla
facoltà di Scienze politiche, essere atei non
era considerato elegante. Meglio essere agnostici.
Meglio considerare le domande su Gesù,
la risurrezione e la vita eterna come domande
puerili, da età dei brufoli. Tanto la filosofia
ha assicurato che risposte non ci sono,
mi dicevano i guru laicisti, chiusi nel cerchio
del loro razionalismo. Ignoramus et
ignorabimus; non conosciamo e non conosceremo
mai. Io sono entrato nella Chiesa nel
momento in cui cominciava la grande fuga.
In cinquant’anni se ne sono andati la metà
delle suore e un terzo dei preti».
– Colpa del Concilio? Lei passa per tenace
conservatore...
«Passo per tante cose che non sono.
Dell’epoca che precedette il Vaticano II non
ho esperienza: non frequentavo le chiese. So
che la Chiesa poteva essere anche soffocante
e moralista. Non sono affatto un tradizionalista.
Il Concilio è stato un evento provvidenziale,
che ha giustamente innovato le forme
dell’annuncio, cercando parole nuove per dire
verità antiche, in piena continuità con la
dottrina precedente. Sull’esempio del Papa,
se mi è permesso, difendo il Vaticano II autentico, rifiuto le sue deformazioni».
– C’è chi osserva che s’è perso l’ottimismo che ha caratterizzato la
Gaudium et spes, segnando una svolta nei rapporti tra la Chiesa e il
mondo, non credenti in primo luogo...
«Delle quattro Costituzioni conciliari la Gaudium et spes è quella che
tra teologia e sociologia deve di più alla seconda. E allospirito degli
anni Sessanta, di Kennedy e Krusciov, della decolonizzazione, del boom
economico, delle prime missioni spaziali.Andando avanti la storia ha
preso un’altra piega. Mentre la Chiesa è e deve rimanere quella di
sempre, “madre e maestra”. Attenta a gettare ponti, ma altresì prudente
nell’innalzare muri che proteggono il depositum fidei, il cuore
della nostra fede. Siamo aNatale. Celebriamo la nascita del Salvatore,
avvenuta in un determinato periodo storico, in un preciso luogo della
terra. Non ci fermiamo per una sorta di generico festival della bontà,
macinando slogan sulla solidarietà, che spesso suonano vuoti e ipocriti
come molti spot pubblicitari. Riusciamo a dire con chiarezza che siamo
in festa per la nascita del Figlio stesso di Dio o ci pieghiamo ancora
una volta al “politicamente corretto”, timorosi di offendere qualcuno?».
Vittorio Messori (a destra) con l'allora cardinale Joseph Ratzinger.
– L’ateismo è un vestito di moda...
«L’atesimo è, a sua volta, una religione.
Nella Torino dei miei maestri universitari, alla
facoltà di Scienze politiche, essere atei non
era considerato elegante. Meglio essere agnostici.
Meglio considerare le domande su Gesù,
la risurrezione e la vita eterna come domande
puerili, da età dei brufoli. Tanto la filosofia
ha assicurato che risposte non ci sono,
mi dicevano i guru laicisti, chiusi nel cerchio
del loro razionalismo. Ignoramus et
ignorabimus; non conosciamo e non conosceremo
mai. Io sono entrato nella Chiesa nel
momento in cui cominciava la grande fuga.
In cinquant’anni se ne sono andati la metà
delle suore e un terzo dei preti».
– Colpa del Concilio? Lei passa per tenace
conservatore...
«Passo per tante cose che non sono.
Dell’epoca che precedette il Vaticano II non
ho esperienza: non frequentavo le chiese. So
che la Chiesa poteva essere anche soffocante
e moralista. Non sono affatto un tradizionalista.
Il Concilio è stato un evento provvidenziale,
che ha giustamente innovato le forme
dell’annuncio, cercando parole nuove per dire
verità antiche, in piena continuità con la
dottrina precedente. Sull’esempio del Papa,
se mi è permesso, difendo il Vaticano II autentico, rifiuto le sue deformazioni».
– C’è chi osserva che s’è perso l’ottimismo che ha caratterizzato la
Gaudium et spes, segnando una svolta nei rapporti tra la Chiesa e il
mondo, non credenti in primo luogo...
«Delle quattro Costituzioni conciliari la Gaudium et spes è quella che
tra teologia e sociologia deve di più alla seconda. E allospirito degli
anni Sessanta, di Kennedy e Krusciov, della decolonizzazione, del boom
economico, delle prime missioni spaziali.Andando avanti la storia ha
preso un’altra piega. Mentre la Chiesa è e deve rimanere quella di
sempre, “madre e maestra”. Attenta a gettare ponti, ma altresì prudente
nell’innalzare muri che proteggono il depositum fidei, il cuore
della nostra fede. Siamo aNatale. Celebriamo la nascita del Salvatore,
avvenuta in un determinato periodo storico, in un preciso luogo della
terra. Non ci fermiamo per una sorta di generico festival della bontà,
macinando slogan sulla solidarietà, che spesso suonano vuoti e ipocriti
come molti spot pubblicitari. Riusciamo a dire con chiarezza che siamo
in festa per la nascita del Figlio stesso di Dio o ci pieghiamo ancora
una volta al “politicamente corretto”, timorosi di offendere qualcuno?».
Alberto Chiara e Fulvio Scaglione