14/08/2012
Il nuovo libro di don Giovanni D'Ercole, Nulla andrà perduto (Piemme)
«Caro don Giovanni, mi chiamo
Alice e ho diciannove anni. Ti
scrivo solo due righe. Sono
stanca di vivere e non ho più
niente da chiedere a questa vita... Ciao. Alice
».
Quando ha ricevuto questo messaggio
da una ragazza aquilana di 19 anni, monsignor
Giovanni D’Ercole, vescovo ausiliare
dell’Aquila, ha capito che non poteva limitarsi
a una risposta generica, facilmente consolatoria.
«Le dure parole di Alice mi hanno lasciato
molto perplesso», confida, «perché una
ragazza a questa età dovrebbe essere piena
di vita e di progetti. Di fronte al suo grido di
dolore mi sono reso conto che non potevo dare
consigli. Potevo solo trasmettere la passione
della vita. Se vivi la tua vita attimo per
attimo le dai un senso e allora scopri che,
anche nelle difficoltà, nulla va perso».
Così, per rispondere ad Alice, monsignor
Giovanni D’Ercole ha scritto un libro che si
intitola Nulla andrà perduto (Piemme). Il
mio grido di speranza per l’Italia, aggiunge il
sottotitolo di un testo dove la riflessione si accompagna
sempre al racconto di una vita che
Giovanni D’Ercole ha dedicato al sacerdozio
e alla comunicazione.
Originario di Morino,
in provincia dell’Aquila, 64 anni, entrato nella
congregazione di Don Orione, monsignor D’Ercole è sacerdote dal 1974. Ha vissuto otto
anni di esperienza missionaria in Costa
d’Avorio, è stato vicedirettore della Sala stampa
vaticana, ha avuto ruoli di responsabilità
all’interno della Segreteria di Stato e dal 14
ottobre del 2009 è vescovo ausiliare
dell’Aquila. Il suo volto è molto noto grazie
alle sue frequenti apparizioni televisive. Da
qualche settimana monsignor D’Ercole ha il
cuore più leggero per l’assoluzione con formula
piena in un processo che lo vedeva imputato
con l’accusa di rivelazioni di segreti
inerenti a un procedimento penale. Era una
vicenda legata alla ricostruzione.
– Nel libro parla diffusamente di questa disavventura
e spiega di aver imparato tre cose:
vigilanza, prudenza, tener separate la cura
delle anime dalla gestione del denaro. Come
si sente adesso?
«Mi resta dentro una grande ferita. Non
tanto per la vicenda giudiziaria, quanto per
l’attacco mediatico, che a un certo punto ti fa
apparire quello che non sei. La lezione che
traggo è che nella vita bisogna essere pronti
a tutto. Anche quando pensi di agire nella
più perfetta buona fede, l’insidia è dietro
l’angolo, non devi mai perdere la fiducia, soffri
tanto, ma alla fine la verità esce fuori».
Sopralluogo di mons. Giovanni D'Ercole nel messinese dopo l'alluvione del 2009 (foto Fotogramma).
– Lei scrive che «il terremoto d’Abruzzo è la
metafora dello sconquasso italiano». Come?
«Qui il terremoto non ha rotto solo le case,
ma ha distrutto le persone dentro. Si sono
spezzati tanti legami, la gente si è dispersa
sul territorio, c’è una vera e propria emergenza
relazionale. Perciò serve ricostruire non
solo le case, ma anche i cuori delle persone.
È necessario non solo all’Aquila ma in tutta
Italia, soprattutto in questo momento di difficoltà
economica. Dobbiamo superare lo scoraggiamento,
la sfiducia e quello che io chiamo
il “tristismo” riprendendo in mano il nostro
futuro, raccogliendo ogni frammento di
bontà e bellezza perché nulla vada perduto».
– Qual è il sentimento prevalente, oggi?
«In questo momento vedo all’Aquila una
grande attesa. Dopo i primi entusiasmi per le
case nuove c’è stato il tempo delle polemiche,
ora prevale l’attesa per degli interventi
risolutivi, non frenati da troppe polemiche e
dalla burocrazia. Ma c’è anche l’ombra della
paura, perché se l’erba cresce sulle rovine fra
un po’ qui vedremo solo un grande campo
abbandonato».
– Come si ricostruiscono le relazioni umane?
«Ricreando punti di ritrovo e di aggregazione
per le persone. La gente ne ha un disperato
bisogno. Lo vedo, in questo periodo estivo,
nelle feste patronali e nelle sagre. È bello
anche vedere la funzione positiva delle “tende
amiche” costruite attorno alle case nuove.
Lì, nelle tende, le persone tornano a stare insieme,
si ritrovano. Allora ti rendi conto che
la grande ricchezza dell’amore che unisce è
la leva che aiuta a superare le difficoltà».
– La gente d’Abruzzo cosa chiede alla Chiesa?
«Spiritualità. Non una religiosità fatta di riti,
ma la testimonianza della presenza di un
Dio che non ti fa mai sentire abbandonato».
– Dopo tanti anni di lavoro in Vaticano come
sta vivendo questa esperienza di vescovo
in una realtà così complessa come
l’Abruzzo ferito dal terremoto?
«Mi sono risentito missionario. La situazione
di precarietà del territorio aquilano dopo
il sisma mi ha fatto rivivere l’esperienza africana,
dove a volte celebravo Messa in una capanna,
spesso in situazioni difficili. Qui ho riscoperto
la bellezza delle piccole cose, il contatto
umano, il lasciarsi provocare dalle persone
che quotidianamente incontri».
– Da uomo di comunicazione come ha vissuto
le vicende legate al “corvo” vaticano?
«Le ho vissute con una grande sofferenza.
La mia fatica è stata quella di spiegare alla
gente che cosa succede nella Chiesa. Ho sempre
detto che questo è un episodio minimo rispetto
alla grandezza della Chiesa. C’è stata
una distorsione ottica prodotta dal sensazionalismo
mediatico. Ogni cosa va riportata
nel suo alveo. Parliamo di una persona che si
è comportata scorrettamente in un posto di
massima fiducia. Non è uno scandalo della
Chiesa. In tutto questo non perdiamo di vista
la grande dignità e anche la grande sofferenza
con cui il Papa sta vivendo tutto ciò».
– È vero che da giovane voleva farsi sacerdote
paolino?
«Sì, nel libro racconto il mio incontro con
il beato Giacomo Alberione. Lo andai a trovare
nella casa dei Paolini, in via Alessandro Severo,
quando già era molto anziano. Volli incontrarlo
perché, pur avendo già fatto il noviziato
dagli orionini, sentivo la vocazione al
giornalismo. Lui mi disse con grande decisione:
“Che cosa vai cercando? Il tuo padre è
don Orione, non don Alberione. Continua
sulla tua strada”. Per me è stato rassicurante,
lo considero uno dei miei beati protettori».
– Lei è sempre stato appassionato di corsa,
trova ancora il tempo di andare a correre?
«Purtroppo no, ma mi ripropongo ogni
giorno di ricominciare. Lo farò piano piano,
altrimenti si invecchia di botto».
Roberto Zichitella