16/05/2013
Le foto di questo servizio sono dell'agenzia Reuters.
«Mi sento in pericolo», dice padre Emmanuel Parvez, sacerdote cattolico, parroco della chiesa di San Paolo Apostolo, a Pansara, nella diocesi di Faisalabad, in Punjab, Pakistan, incontrato in occasione di un suo passaggio a Creazzo, nella parrocchia di San Marco, diocesi di Vicenza, ospite della Commissione Giustizia e Pace. È un timore reale, perché padre Emmanuel lavora per il dialogo tra cristiani e musulmani, e perché dal pulpito del funerale del suo primo cugino, Shahbaz Bhatti, ha condannato gli attentatori.
Era il 2 marzo 2011 quando Shahbaz Bhatti, cattolico, ministro pakistano per le minoranze religiose, fu ucciso a Islamabad da un commando di fondamentalisti islamici, perché cercava di modificare la legge sulla blasfemia - promulgata nel 1986 per volere del dittatore Zia-ul-Haq -, che punisce con l'ergastolo o la pena di morte chi profana il Corano o dissacra il nome del profeta Muhammad. Una legge che è costata la vita a centinaia di cristiani. «Da quando mi sono schierato apertamente a favore della battaglia di mio cugino, ho cominciato a ricevere minacce. Gli amici mi hanno consigliato di fuggire, ma io non me ne andrò mai dal Pakistan. Certo. Ho paura della morte. E chi non ce l'ha? Ma voglio morire nel mio Paese».
Un Paese che sta diventando sempre più pericoloso per le minoranze, in primis i cristiani, che sono l'1 per cento di una popolazione di 180 milioni di abitanti, al 98 per cento musulmani. L'altro 1 per cento è formato da induisti e appartenenti ad altre confessioni. Un Paese dove il Governo va ribadendo che c'è la libertà, ma dove qualsiasi scusa è buona per accusare un cristiano. «Per lo più, si tratta di falsità. Ma come si fa a difendersi? Spesso la stessa polizia è dalla parte di chi calunnia. Asia Bibi (cristiana, condannata a morte nel 2010 con l'accusa di aver offeso il profeta Muhammad, è in carcere, ma ancora in vita per la pressione internazionale, ndr.) e un'altra ragazza sono state condannate da chi neppure conosce la legge islamica (shari'a)».
In Pakistan vi sono diverse scuole, istituti e ospedali cristiani, apprezzati dai musulmani e anche dalle autorità locali per la bontà del lavoro svolto in favore della popolazione, a prescindere dalla fede professata. Tuttavia, la libertà religiosa non è garantita e si ripetono di continuo casi di persecuzioni, minacce di morte, sottrazione di case e terreni. «Quando non c'è giustizia, le minoranze sono le prime vittime. Il cristianesimo è sentito come una religione straniera, perché la gente non sa che i cristiani hanno contribuito alla creazione della nazione. I musulmani integralisti credono che il Pakistan sia stato creato per far vivere l'Islam. Per loro la religione di Allah è l'unica che deve esistere. Chi non è musulmano, è avvolto dalle tenebre. La luce è stata portata da Muhammad. I loro eroi, come Saddam Hussein o Bin Laden, sono stati uccisi dagli americani e per questo i fondamentalisti hanno un odio tremendo contro l'America e l'Europa, sua alleata. Sono arrivati al paradosso: prima per l'Islam il suicidio era sbagliato, ora è diventato un mezzo per andare in paradiso. Così in continuazione ci sono ragazzi che si fanno saltare in aria e muore tanta gente, anche musulmani. Musulmani che uccidono altri musulmani. Mai prima d'ora era accaduto. E, purtroppo, i talebani continuano ad avere seguito, e loro vogliono instaurare la shari'a».
I cristiani vivono anche una situazione di grande povertà. «Soprattutto la mia zona è molto povera», continua padre Emmanuel Parvez .
Le persone lavorano come schiavi nelle fabbriche di mattoni, anche i
bambini. Io viaggio in continuazione tra i 30 villaggi della mia
parrocchia (nei momenti di maggior tensione, sotto scorta), per andarli a
trovare, per portare loro parole di conforto. Abbiamo anche acquistato
un terreno e stiamo costruendo per loro delle casette, dalle quali
nessuno possa mandarli via, perché spesso le denunce sono l'esito di
dispute su terreni e proprietà».
Ci sono segni di speranza? «Dieci anni fa, avevamo 120 scuole
cattoliche, adesso ne abbiamo più di 2.000 e ci sono più di 1.000
chiese. Quando, a marzo, i musulmani hanno attaccato un insediamento
cristiano, dove risiedeva un giovane, presunto autore di blasfemia,
causando la distruzione di 150 tra case e negozi, e gettando nella
disperazione 300 famiglie cristiane, il governatore del Punjab ha
parteggiato per i cristiani, dicendo che se qualcuno accusa un cristiano
per qualcosa che non ha fatto, va punito. Ecco, questi sono segni di
speranza. Ma la speranza viene anche dai giovani. Tutti gli anni, a
febbraio, organizzo un grande torneo di calcio. Vengono da tutto il
Pakistan. 32 squadre. Giovani cristiani e musulmani stanno assieme per
una settimana condividendo il gioco, il cibo, l'alloggio e anche la
messa, dove io parlo di pace, concordia, tolleranza, amore, temi che
riguardano noi e loro. Ho creato un'azienda agricola per dare lavoro,
anche lì, insieme, cristiani e musulmani. E le nostre scuole accolgono
tutti. Io lo chiamo il dialogo della vita. Con i ragazzi, con i bambini
non ci sono problemi, è quando parlano i mullah che i problemi
cominciano».
Le recenti elezioni dell'11 maggio hanno messo il Paese a dura prova.
Nelle ultime settimane, infatti, si sono verificati alcuni attentati,
tesi a intimidire alcuni candidati; l'ultimo, domenica 28 aprile, ha
provocato 5 morti e 15 feriti. Avete aspettative rispetto a queste
elezioni? «Speriamo di poter avere un governo democratico, con persone
capaci, non corrotte. La gente ha cominciato a capire che deve scegliere
bravi rappresentanti. C'è un nuovo politico, Imran Khan, che prima era
un giocatore di cricket di livello internazionale. Per noi può essere un
buon governante; è musulmano, ma persegue la giustizia». Ha qualche
ricordo particolare di suo cugino? «Mi chiamava "fratello maggiore" e
mi faceva molte domande sulla Bibbia, perché io sono laureato in
teologia biblica. Shabhaz era innamorato di Gesù. Diceva: “Non c'è
amore più grande che dare la vita per i poveri. Gesù sapeva che a
Gerusalemme avrebbe trovato la morte, ma è andato lo stesso. Io sono a
Islamabad e questa è la mia Gerusalemme. O il successo, o il martirio”.
Prima non capivo, ma adesso che anche la mia vita è in pericolo, sento
quello che sentiva lui. Non posso andarmene. Questi poveri hanno diritto
alla dignità. Faremo tutto ciò che possiamo per realizzare i sogni di
Shabhaz».
A raccoglierne il testimone è stato il fratello Paul Bhatti, medico,
trevigiano d'adozione. Tale impegno all'inizio lo preoccupava, perché
pure lui aveva subito un attentato, fortunatamente senza conseguenze.
Eppure, ha scelto il Pakistan: «La paura - mi disse - è un sentimento
umano. Non aver paura, non sarebbe umano, ma adesso è venuto il mio
tempo di continuare la missione di mio fratello». È nata così la
Fondazione Shabhaz Bhatti che, oltre a promuovere il dialogo
interreligioso, mira a combattere la povertà e a favorire l'istruzione.
Romina Gobbo