07/06/2011
Monsignor Lafont celebra la Messa a Soweto (Sudafrica).
Il 27 aprile 1994, un sacerdote francese ottenne di essere presidente di
seggio a Soweto. La sede scelta per le elezioni fu proprio la parrocchia, nel
cuore turbolento della township. Dopo aver rigirato la scheda fra le mani, con
gesto deciso, padre Emmanuel Lafont pose una croce accanto a un nome. Quello di
Nelson Mandela.
Oggi cardinale, monsignor Lafont ha trascorso
in Sudafrica gli anni cruciali della storia del Paese, quelli dell'apartheid,
delle rivolte dei ghetti, della fine del regime razzista e della trionfale
elezione di Nelson Mandela.
Della sua esperienza, il cardinale parla nel suo
libro Un curé a Soweto (Un parroco a Soweto) pubblicato in Francia dalle
edizioni Du Rocher proprio quest'anno, mentre il Sudafrica festeggia vent'anni
dalla fine dell'apartheid e ovunque compare l'effigie di Mandela.
I ventisette anni di detenzione trascorsi nelle prigioni di
Stato, quali la famigerata Robben Island, non furono in grado di smorzare la
forza delle idee di Madiba.
Lo sa bene monsignor Lafont, che con Mandela ha
mantenuto sempre negli anni un rapporto di amicizia e di rispetto reciproco. Da
una parte, il sacerdote bianco che insisté, contro tutto e tutti, per diventare
parroco presso la chiesa San Filippo Neri di Soweto, dall'altra il leone nero
che diede animo a un popolo intero, con il suo esempio. Padre Lafont sfidò i
divieti e le leggi dell'apartheid. Ai bianchi era proibito vivere nelle
township. Ma se tutti seguissero le regole, non esisterebbe la storia. E cosí
nel 1985, si ritrova ad essere acclamato dalla popolazione del ghetto più famoso
di Johannesbourg, in una calorosa festa di benvenuto.
Una donna
gli disse: "Noi, quando festeggiamo, festeggiamo. Di quello che vali non abbiamo
alcuna idea, lo si vedrà".
Il sacerdote era sbalordito. Una tale manifestazione
d'affetto proprio non se l'aspettava. "Ho ricevuto in quell'occasione una grande
lezione di tolleranza e umanità", ricorda "quelle persone cosí sorridenti verso
un bianco, erano tormentate tutti i giorni dal regime dell'apartheid". Padre
Lafont ha voluto vivere a Soweto per essere in simbiosi con la gente della
township, per condividere con loro gioie e dolori, momenti di serenità e di
tensione. Solo cosí poteva davvero conoscere i loro problemi, solo cosí poteva
conquistare la loro fiducia. "Mi unii alle loro proteste. La forza repressiva
dei bianchi era estremamente potente. Le mie messe erano spiate, il mio telefono
era sotto ascolto".
Non sempre Padre Lafont condivideva però i metodi adottati
dagli abitanti di Soweto per fronteggiare i bianchi. "Anche se una causa é
giusta, non sempre i mezzi per raggiungerla sono buoni. Non ho mai potuto
accettare gli atti di violenza, le decisioni di partire all'attacco di
chicchessia, le ingiurie proferite verso i poliziotti. Mi sono sentito solo in
molti momenti. Ero in collera quando vedevo dei giovani partire per spedizioni
punitive. D'altra parte, sapevano della mia disapprovazione e agivano spesso di
nascosto. Vengo a conoscenza di certi "incidenti" ancora oggi!".
A volte Padre
Lafont aveva l'impressione che "nessuno ascoltasse più nessuno" e un giorno
espresse il suo sconforto con uno sciopero della fame. Poi arrivò il 1990 e con
esso la liberazione di Nelson Mandela. "Ricordo dei momenti magnifici. Qualche
settimana prima della sua scarcerazione, vennero liberati otto suoi compagni di
lotta, fra cui il suo più caro amico Walter Sizulu. Le leggi dell'apartheid e lo
stato d'emergenza erano ancora in vigore. Ma abbiamo organizzato per questi
uomini una cerimonia trionfale nel grande stadio FNB alle porte di Soweto. Per
la prima volta le bandiere dell'African National Congress sventolavano libere.
Indossavamo tutti magliette con i colori e il logo dell'ANC. Tutto questo
ufficialmente era ancora proibito, ma tutti avvertivamo che l'apartheid stava
perdendo forza, che aveva i giorni contati".
L'11 febbraio, Mandela venne a sua
volta scarcerato e il 13 si presentò davanti a una folla di 110.000 sostenitori
a Soweto. Monsignor Lafont ricorda la frase con cui esordí: "Se continuate a
fare questo baccano, non dirò niente. Ci vuole della disciplina!" Il venerdí
successivo, il sacerdote è invitato a casa di Madiba dalla figlia Zindzi.
Winnie Mandela si occupa delle presentazioni. "Quel giorno c'erano più di
ottanta persone stipate nella sua casa matchbox (grande quanto una scatola di
fiammiferi), quattro stanze in tutto. Trascorsi con lui mezz'oretta in giardino.
Era libero da quattro giorni ed era stato prigioniero per ventisette anni.
Eppure trovai un uomo estremamente calmo, sereno, che esprimeva pensieri
profondi e analisi lucide su tutti i soggetti che affrontammo".
Dopo che Mandela
venne eletto presidente, Padre Lafont sentí che la sua missione in Sudafrica era
terminata. "Ero ben cosciente che era compito dei sudafricani quello di dare un
nuovo assetto al Paese. Mi venivano offerti posti di responsabilità e me ne sono
chiesto il motivo. Inconsciamente, pensavano forse che un bianco avrebbe agito
meglio di loro? Tutto questo doveva finire".
Monsignor Lafont ama ricordare una
frase di Steve Biko, il leader militante torturato e ucciso dalla polizia nel
1977 a Pretoria: "L'arma più potente dell'oppressore é lo spirito
dell'oppresso", diceva, alludendo al fatto che senza rendersene conto, la
popolazione di colore stava assimilando il senso di inferiorità imposto per anni
dai bianchi. Era tempo per i neri del Sudafrica di riprendere in mano il proprio
destino. Padre Emmanuel Lafont lasciò Johannesburg nel 1996. Oggi é arcivescovo
presso la diocesi di Cayenna.
Eva Morletto