20/12/2012
Francesco De Gregori ha appena pubblicato l'album "Sulla strada".
Sulla strada che porta all’Alcatraz, la discoteca
milanese dove Francesco De
Gregori sta per tenere il concerto in
cui presenterà l’ultimo album, si è formata
una coda composta e allegra: cinquantenni
e sessantenni, fedeli seguaci del cantautore
romano fin da Alice non lo sa, l’esordio da solista
del 1973, e giovani, tanti giovani, che magari
sono stati iniziati all’arte del “principe
della canzone italiana” dal papà e dalla
mamma. Curiosamente, gli uni e gli altri, i “vecchi”
e i giovani in fila per sentire dal vivo le canzoni
di Sulla strada e i successi storici, spesso sono
a braccetto: genitori e figli accomunati dalla
stessa passione, oltre i limiti generazionali.
«Oggi è un giorno perfetto per volare / oggi
penso che il futuro sia un dovere / il ministero
della speranza / ha detto che si può sperare»: la
presenza così massiccia di ragazzi evoca alcuni
versi di Ragazza del ’95, una delle nove, poetiche
tracce dell’ultimo lavoro. Il futuro è un dovere,
la società e la politica sono moralmente
tenute a garantirlo ai giovani? In un camerino
dell’Alcatraz, dietro gli inseparabili occhiali
scuri e l’immancabile cappello, alto e magro,
una barba che dà ancora più spessore a parole
mai banali (sicuramente un uomo interessante
per il pubblico femminile, in maggioranza
nella coda là fuori), De Gregori sorprende subito:
«I giovani di oggi stanno vivendo un momentaccio,
non c’è dubbio. Mi sento loro fratello
maggiore, pieno di rispetto per le difficoltà
in cui sono immersi. Però credo che il loro
futuro vada pensato non soltanto in termini
di diritti – che sono sacrosanti e guai a toccarglieli
–, ma anche in termini di doveri».
Di colpo, fiumi di retorica giovanilistica vengono
buttati a mare: «Bisogna che i giovani sappiano che, anche e soprattutto in momenti di scarse opportunità, devono impegnarsi affinché
esse si creino. Occorre che esprimano la
spinta vitale che è nel loro Dna. Non che voglia
fare il professore, ma per uscire dalla crisi vanno
tenute a mente le parole di Kennedy: “Non
chiederti che cosa il tuo Paese può fare per te,
chiediti che cosa tu puoi fare per il tuo Paese”.
Se i ragazzi non possono crescere in un panorama
di opportunità negate, devono tuttavia anche
accompagnare tali rivendicazioni con l’impegno,
la voglia di inventarsi il futuro».
A De Gregori non è mai piaciuto atteggiarsi
a guru, benché molti spesso lo trattino come
tale, ma non si sottrae dal dare un giudizio su
quel “panorama” che dà forma al tessuto sociale
della nostra Italia: «Il nostro è un Paese
che si è arricchito, ha conquistato benessere e
ora è in crisi, ha perso di vista i valori originari...
Dovrei parlare di quello che è successo
negli ultimi vent’anni, della Democrazia cristiana,
di Berlusconi, di Monti, ma non voglio
farlo. Quello che noto, da comune osservatore,
è un Paese che ha meno stima di sé. Anche
in passato abbiamo dovuto affrontare momenti
duri – penso ad esempio al terrorismo, agli anni ’70... –, ma allora
c’era un nervo che
resisteva, ora domina la depressione».
Eppure De Gregori è sempre lì, a suonare
sul palco, a scrivere canzoni, quarant’anni di
fedeltà alla propria vocazione e alla musica.
In Guarda che non sono io, scrive: «Guarda
che non sono io quello che stai cercando /
Quello che conosce il tempo, e che ti spiega il
mondo», mentre in Omero al Cantagiro paragona
la chitarra a un’arma da guerra. Insomma,
la musica può incidere sulla realtà, cambiarla,
oppure no? «La musica, come ogni
espressione artistica, non può insegnarci nulla.
E nemmeno la scienza. Sono tentativi di
avvicinarsi alla verità, ma l’idea che possano
spiegare il mondo tradisce presunzione. La
nostra esistenza contiene un mistero, che
nessuno potrà mai spiegare. D’altra parte, la
musica ha una missione civile, quella di raccontare
la vita e la storia. Ci sono i cantanti
che parlano solo d’amore e fidanzate, e quelli
che parlano solo di politica. Nel mio canzoniere
hanno sempre convissuto entrambi gli
elementi, pubblico e privato».
Il contatto con il pubblico, in ogni caso, è sempre stato essenziale per
De Gregori, come testimonia la sua intensa attività concertistica. «Ho
sempre cercato di lavorare il più possibile: preferisco fare 10 concerti
per mille persone che uno per 10 mila, perché mi diverto a suonare. Non
calcolo il numero delle persone che vengono ai miei concerti, ma le
volte che salgo sul palco. E più volte mi capita di farlo, più mi
diverto». Il fatto è che «il pubblico è uno specchio del tuo lavoro, ti
fa capire se quello che hai scritto è interessante, commovente, divertente,
con una risposta immediata. Da parte loro, inevitabilmente è un
rapporto di ammirazione. Da parte mia, di gratitudine: so di essere un
artista che in carriera ha fatto molte giravolte, ha cambiato
arrangiamenti e suoni… Non dico che ho tradito il pubblico, ma a volte
non gli ho dato quello che si aspettava da me. Sui tempi lunghi, questo
non mi ha creato disaffezione, sul momento qualche incomprensione.
Nella mia carriera, che ormai è lunga 40 anni, ho trovato un affetto
continuo, anche grazie a un naturale ricambio generazionale».
Sulla strada è, per ammissione dello stesso
De Gregori, il più autobiografico dei suoi
album. «La mia vita è totalmente nelle mie
canzoni», precisa. Eppure, guai a pensare di
conoscere l’autore in base a esse, ammonisce
nel già citato Guarda che non sono io.
«Il testo nasce da un episodio reale, piuttosto
frequente. Quando sono a casa mia, a Roma,
faccio quello che fa ogni persona: passeggio,
vado al supermercato... Succede che mi riconoscano.
Molti ci sono abituati, mi salutano,
“Ciao Francè, come è andato il concerto?”.
Altri si stupiscono di vedere un personaggio
famoso con le buste della spesa in mano, allora
mi fermano, chiedono notizie sulle canzoni,
raccontano che hanno chiamato la figlia
Alice grazie a me... Niente di male, in questo:
anch’io, se incontrassi sulla strada Bob Dylan, Però la sensazione che
suscitano in me questi incontri è che la gente mi identifichi
in una persona diversa da quella che sono,
perché c’è uno iato fra il De Gregori che le persone
si immaginano ascoltando le mie canzoni
e la mia consistenza reale».
In Sulla strada, come in tutti i dischi precedenti del cantautore
romano, troviamo tracce di un immaginario che gravita attorno alla
guerra: soldati al fronte, donne che li attendono a casa, generali,
sergenti… «Sono nato in un periodo di pace, il ’51, ma la mia
generazione ha sentito il soffio della guerra. La mia infanzia l’ho
vissuta ai tempi della Guerra fredda; ricordo perfettamente la crisi di
Cuba, la paura che la situazione degenerasse; di Hiroshima ci hanno
raccontato, e vedevo sui libri le foto del terribile fungo di fumo… Poi
abbiamo vissuto un lungo periodo di pace, ma i racconti dei nostri
genitori erano spesso legati ai conflitti. E anche oggi le guerre stanno
intorno a noi, nemmeno troppo lontane».
Forse l'immaginario bellico ha anche a che fare con lo zio ufficiale degli alpini, poi partigiano, vicecomandante delle Brigata Osoppo, ucciso a
Porzûs nel
1945. Tra l'altro anche lui si chiamava Francesco...
Non tutti sanno che anche il fratello di De Gregori, Luigi, è un
musicista. «Il primo musicista della famiglia, in realtà, è lui. Fu lui a
recuperare dalla cantina una vecchia cantina del nonno e mettersi a
suonare. Io, più piccolo di lui, lo vedevo trafficare con questo
strumento. Senza di lui, difficilmente mi sarei avviato su questa
strada, gli devo molta gratitudine. Tra l’altro siamo consonanti in
fatto di gusti, ci piace la stessa musica. Non c’è stata mai alcuna
invidia da parte sua per il fratello più giovane che ha avuto successo,
al contrario, è sempre stato il primo a gioire quando le cose mi
andavano bene e a soffrire quando andavano male. Un vero fratello».
De Gregori con Lucio Dalla nello storico tour del 1979.
E i
genitori, bibliotecario lui, insegnante di lettere lei, come hanno
reagito a questa vocazione? «Si stupirono quando cominciai a guadagnare e
si resero conto che la musica sarebbe diventata la mia vita. Allora
studiavo filosofia, avevo dato tutti gli esami, mi mancava solo la tesi…
Che purtroppo non ho più fatto. Quindici anni fa mi ero rimesso in
regola con i pagamenti, ma poi non feci nulla». Su che cosa verterebbe
la tesi, se dovesse farla oggi? «Quand’ero studente pensavo di darla in
storia contemporanea, oggi confermerei l’idea». Che altro aspettarsi dal
cantautore che ha scritto la colonna sonora del nostro Paese?
Nove mesi fa ci lasciava Lucio Dalla, compagno
di due memorabili tournée. «È talmente recente
il ricordo dei concerti fatti assieme... Non
c’è stata una sera in cui, ritrovandoci nel camerino,
non fossimo contenti di vederci e poi di
salire sul palco l’uno accanto all’altro. Ci siamo
divertiti molto. Mi manca l’amico e il compagno
d’armi. La morte sembra sempre un’ingiustizia,
questa è una delle morti più ingiuste».
Al di là del rimando a Kerouac - che De Gregori ha dichiarato di aver letto quando non era più giovanissimo -, Sulla strada è un’efficace metafora per descrivere la vita di un uomo e di un artista: «È una della vita di tutti, non solo di un artista. Chi, come me, fa il cantante di mestiere, la strada la conosce anche fisicamente, perché i concerti mi portano in tutt’Italia, da Brindisi a Torino. Il bello è che stare sulla strada continua a piacermi, anche l’impegno fisico di un viaggio mi affascina, sebbene ormai abbia una certa età».
Paolo Perazzolo