19/04/2011
Bob Geldof mentre interviene a un festival musicale.
A Bob Geldof va riconosciuto il merito di aver saputo coniugare musica e beneficenza: fu sua l’idea di promuovere, nel lontano 1984, il singolo natalizio Do They Know It's Christmas radunando molti volti noti della scena inglese. Sua anche l’allestimento – insieme a Midge Ure – del Live Aid nel 1985, il megaconcerto che portò all’Africa ben 150 milioni di sterline. Sua la ripetizione, a vent’anni di distanza, quel Live8 che nelle casse dell’Africa portò un terzo della cifra della precedente, ma i tempi sono cambiati e molto. E in questi anni pare sia alterato anche l’atteggiamento di sir Bob Geldof, 59 anni a breve, capelli grigi e aria un bel po’ naïf.
L’icona del pop benefico, “professione” che gli è valsa due nomination al Nobel per la pace, è molto cambiato. Viene pubblicato in questi giorni il suo nuovo disco, How To Compose Popular Songs That Will Sell,
a dieci anni di stanza dal suo precedente album in studio. Un lavoro
nel quale si ascolta di tutto, citazioni e ricordi, echi e rimandi:
dagli Swingle Singers a Captain Beefheart, passando per Nick Drake e George Harrison.
- Mr Geldof, l’Africa è sempre nel suo cuore, come si sente in questo momento così delicato per questo continente?
«Mi riesce difficile credere alla cecità del mondo occidentale. In
questo momento mi pare che l’America sia stanca di essere l’America, e
l’Europa sia immobile, eppure non vogliono convincersi che l’Africa ha
bisogno di investimenti commerciali e culturali seri. Ricordo per
esempio di aver letto recentemente di un test di matematica sottoposto a
studenti di tutto il mondo. Alla fine i ragazzi del Ghana e della
Tunisia si sono contesi il primato. Eppure gli interventi finanziari
degli occidentali sembrano non fidarsi ancora del continente. In realtà
proprio lo sviluppo commerciale dell’Africa può essere la soluzione al
problema delle grandi migrazioni. Soprattutto bisogna rendersi
velocemente conto del fatto che entro il 2040 l’Africa sarà al centro
del mondo».
- Ci va spesso?
«Ci vado appena riesco; sono tornato da poco. Sa cosa mi colpisce più
ogni volta che ci torno? La cooperazione, sembra che lì assuma
significati universali, unisce in maniera decisa, è incredibile».
- Il suo approccio a queste problematiche è politico o semplicemente un’esigenza personale?
«Tra la politica e la musica, scelgo la musica. Quando mi chiedono cosa
funzionò davvero del Live Aid, rispondo solitamente che la musica fu la
cosa migliore, senza l’enorme potenziale di aggregazione che ha non
sarebbe certamente potuto andare a finire come tutti sappiamo. Ora sono
molto concentrato a cantare il mio mondo interiore».
- Il titolo del suo disco parla chiaro: come si fa a comporre canzoni che venderanno?
«Non saprei, non ho mai avuto tanta fortuna con le classifiche. Però
l’ispirazione del titolo viene da un vecchio libro che ho visto da un
amico. Comunque il disco sta andando bene, Internet ti dà un riscontro
diretto».
- Che rapporto ha con internet?
«Credo che serva molto alla politica, alla musica meno, anzi sta
contribuendo a ucciderla. Una volta, negli anni Sessanta e Settanta
c’era quel substrato culturale adatto ad accogliere istanze di un
cambiamento deciso, oggi non è più così. In quei tempi il linguaggio
universale era il rock, oggi l’attenzione è rivolta altrove».
Federico Scoppio