30/03/2013
Enzo Jannacci, 1935-2013 (Ansa).
Nel 1990 gli chiesero come facesse a esercitare contemporaneamente le professioni di chirurgo al Policlinico di Milano e di cantautore: “Per andare a cantare devo prendere le ferie. Io le vacanze le passo così. I miei colleghi vanno a divertirsi ai congressi, a parlare di trapianti e roba del genere. Io, invece, povero disgraziato, canto”. In questa risposta, c’è tutto Enzo Jannacci, che si è spento ieri sera a 77 anni nella sua Milano, che ha raccontato in musica meglio di chiunque altro.
Il gusto per lo sberleffo unito a una vena poetica tendente alla malinconia, il rifiuto di farsi incasellare, lo hanno reso un personaggio unico fra i cantautori. Compagno di scuola al liceo di Giorgio Gaber, un diploma al Conservatorio, una specializzazione in chirurgia che lo portò in Sudafrica a entrare nell’equipe di Christian Barnard, l’uomo del primo trapianto di cuore, irrompe come un alieno fra la fine degli anni ’50 e gli inizi dei ’60 nella scena musicale italiana. Alterna canzoni in italiano ad altre in dialetto milanese e le canta con una voce nasale, sempre sul filo della stonatura, ma comunque riconoscibilissima.
Sfonda in hit parade con “Vengo anch’io no tu no”, collabora con Dario Fo, Cochi e Renato e Beppe Viola, con cui scrive la strepitosa “Quelli che”, sempre poi aggiornata nel corso degli anni. Per il cinema, invece regala la straziante “Vincenzina e la fabbrica” a Mario Monicelli per il suo “Romanzo popolare”. Da tempo non lo si vedeva più sfrecciare con la sua Citroen modello “ferro da stiro” o con il suo motorino a Città Studi, il quartiere universitario di Milano dove viveva. Lo abbiamo visto l’ultima volta in Tv, già fortemente segnato dalla malattia, il 19 dicembre del 2011 in un programma-tributo di Fabio Fazio, accompagnato dal figlio Paolo, anche lui eccellente musicista con il quale ha scritto le sue ultime canzoni. La professione di medico invece l’aveva lasciata per andare in pensione il 1° gennaio 2003, lo stesso giorno in cui moriva il suo amico Giorgio Gaber. Ci piace immaginarli adesso lassù, a cantare ancora una volta, vestiti da Blues Brothers, “Una fetta di limone”, scatenati come due ragazzini a tempo di rock.
Eugenio Arcidiacono