03/12/2012
Jonas Kaufmann con Anja Harteros durante le prove del "Lohengrin" (MONIKA RITTERSHAUS).
È a detta di molti il più grande tenore del mondo. Ma non è l’erede di Pavarotti, né di nessun altro: è Jonas Kaufmann e basta. Il suo repertorio spazia: e la sua voce, il suo timbro particolare, la sua presenza scenica ne hanno fatto un personaggio.
Quarantatrè anni, nato a Monaco di Baviera, vive a Zurigo con la moglie e 3 figli. A Milano è arrivato la prima volta per l’ultima regia di Giorgio Strehler, il Così fan tutte di Mozart del 1997 al Piccolo Teatro. Poi ha inaugurato la Stagione 2009 della Scala con Carmen di Bizet. E ora ritorna come protagonista del 7 dicembre col Lohengrin di Wagner diretto da Daniel Barenboim.
Lo incontriamo in questi giorni di vigilia della “prima” in un saletta del Teatro, con pochi altre giornalisti. Ed è lui che inizia a spiegarci quale Lohengrin vedrà il pubblico.
«Non so cosa posso anticipare. Alla Scala ci tengono che lo spettacolo si sveli con l’alzata del sipario. Ma posso dire che non sarà un Lohengrin tradizionale, ma neanche sperimentale. Non ci saranno provocazioni, e ci sarà molto spazio e rispetto per la musica. Il regista ci tiene a trasmettere la magia di quest’opera. E l’ha ambientata all’epoca della prima rappresentazione, quindi l’Ottocento».
Come sente il personaggio-Lohengrin Jonas Kaufmann?
«Per me Lohengrin non è quel personaggio eroico e tutto d’un pezzo che si vuole fare apparire. È più fragile. È capace di perdersi nelle sue emozioni. Penso all’inizio: il Coro ne esalta il valore e la figura: ma il suo canto è dolce, e si presenta come un “non eroe”».
C’è un momento particolarmente intenso dal punto di vista del dramma e della musica?
«Alla fine, nella scena in cui è prescritto l’arrivo del cigno, l’emozione prende davvero tutti noi che siamo sulla scena. È toccante».
Però già si sa che alla Scala il famoso cigno non ci sarà…
«No, il cigno non ci sarà. Ma oggi la regia impone di creare universi più simbolici. Un cigno di plastica che arrivasse in scena sarebbe assurdo. Andava bene 50 anni fa. Oggi tutto è più complesso. E nell’era della Tv, della cronaca, di Internet il teatro può ancora far sognare. Ma le regie di oggi lasciano che il pubblico “vada oltre”: sono più curate nella recitazione, i palcoscenici sono più vuoti, c’è più spazio per la musica. È più difficile per noi. Più intenso. Oggi non serve più il gesto da tenore, da cantante di un tempo. Il gesto è interiorizzato. L’atmosfera è determinante».
Un altro momento delle prove con Kaufmann (MONIKA RITTERSHAUS).
Cosa ricorda del Così fan tutte con Strehler?
«Devo dire che è stato Giorgio Strehler a insegnarmi ciò che ho appena
detto. È stata una esperienza fondamentale».
E degli allestimenti più sperimentali che sono andati di moda a lungo
cosa ne dice?
«Io non credo che gli allestimenti sperimentali avvicinino i giovani
alla musica. Una volta si pensava questo. Ma non è così. I giovani hanno
già troppa realtà davanti agli occhi. Troppo realismo. I giovani
vogliono sognare. E la musica permette loro di farlo».
Lei ha cantato a Bayreuth, la “casa” di Wagner. E ora qui alla Scala.
C’è differenza?
«Cantare a Bayreuth è un’emozione, ovvio. Ma è anche imbarazzante
cantare in un posto dove ti ricordano che il tale aveva fatto nel 1950
quel passaggio in un certo modo, e il talaltro nel 1980 in un altro.
L’impressione che più che il tempio di Wagner Bayreuth sia
autoreferenziale. Alla Scala si può essere sé stessi, proporre la
propria interpretazione. E a me piace l’idea di creare i miei
personaggi. Partendo da zero».
Ricorda la sua prima esperienza all’opera?
«Avevo 6 o 7 anni. Con mia sorella andai a vedere una Butterfly di
Puccini a Monaco. Rimasi incantato. Col fiato sospeso. Mia sorella mi
faceva notare che alla cantante si scioglieva il trucco. Ma per me era
tutto vero. Alla fine quando Cio Cio San si suicida soffrii molto. Ma,
subito dopo, vedendo i cantanti che venivano sul palcoscenico a salutare
e prendere gli applausi, ci rimasi male. Per me lei era morta davvero
di dolore!».
E cosa ne dice della polemica sulla scelta per l’inaugurazione di un’opera
di Wagner e non di Verdi?
«La scelta di Wagner a me sembra naturale.
Siamo nel 2012, non nel 2013. Ma dirò di più. Lohengrin è l’opera più
italiana di Wagner. La più milanese. E rappresentarla qui con un suono
italiano secondo me viene incontro all’idea che Wagner aveva di questa
musica. Dunque è una scelta perfetta».
Giorgio Vitali