07/02/2013
Ludovico Einaudi, compositore e pianista.
Ludovico Einaudi è uno sperimentatore, non è un musicista compulsivo, però è molto curioso e attento al mondo che lo circonda e che lo fa appassionare, di volta in volta, a stili e generi diversi che nella sua estetica si integrano perfettamente. Riprova ne è In a Time Lapse, il disco pubblicato il 22 gennaio da Decca/Universal, nel quale esplora i suoi sentimenti di poeta e attivista del pianoforte e della composizione. Anche se ci tiene a precisare: «Non ho mai pensato la musica in termini di pianista, il pianoforte è uno dei mezzi di cui mi servo, è il mezzo principale con cui mi esprimo, però poi ho inglobato molte altre cose all’interno della mia anima».
Nato a Torino nel novembre del 1955, esattamente dieci anni dopo che il nonno Luigi fu eletto Presidente della Repubblica, è figlio di un grande editore. Da una decina di anni tutti lo conoscono e tutti lo vogliono, prima ha molto faticato a mettersi in mostra, solo grazie a un lavoro duro e costante risulta essere oggi un artista molto, molto apprezzato.
In A Time Lapse tenta di raccontare il tempo. Distensio animi come diceva Sant'Agostino. Lei come lo definirebbe?
«Il tempo non si può definire, ma la musica abita, cambia e trasforma il tempo. Dà significato al tempo, perché ne lascia un ricordo preciso, quel momento sarà sempre legato a quella musica. La musica può raccontare tempi passati, presenti e futuri nello stesso momento. Con il suono si possono creare mondi interiori complessi e sofisticati che si muovono nell’illusione del tempo».
Perché ha scelto di registrare nel monastero di Villa San Fermo a Lonigo, tra Verona e Vicenza?
«Ho recuperato informazioni di natura acustica sul luogo: una sala molto bella, tutta di legno. La giornata era scandita da alcuni appuntamenti fissi della vita in monastero e, in contrapposizione, la libertà totale della nostra musica: una scissione molto forte che mi ha stimolato per il lavoro che dovevo svolgere».
Il nuovo album di Einaudi.
La sua è una musica quasi sempre strumentale. Non sente l’esigenza di
affiancare delle parole e una voce alla sua musica?
«Ho fatto anche esperienze in questo senso sia con brani che avevo già
scritto e che ho affidato a una cantante salentina con cui ho
collaborato durante l’esperienza che ho avuto in Salento nell’ambito del
festival "La notte della taranta". Anche in Inghilterra, durante un
workshop, ho lavorato con autori e cantanti della scena inglese. Sono
esperienze molto positive, però mi affascina molto più l’idea che non ci
siano parole nella musica. È come se la musica senza le parole possa
contenere più sfumature e sia più aperta a significati e
interpretazioni. Come il video, quando è abbinato alla musica, racconta
un significato, senza il video c’è un ulteriore spazio di confronto e
ragionamento per chi ascolta».
Spesso si parla di lei come il capostipite di una generazione di
pianisti che si muovono tra il jazz, la musica contemporanea e
l’elettronica, come Allevi, Bollani e qualche altro. Si ritrova in
questo ruolo?
«Mi sembra una definizione riduttiva. Però mi piace aver ricreato la
figura di un musicista, come c’è sempre stata nella musica popolare, che
sia compositore ed esecutore. Aver realizzato questo in un Paese
culturalmente arretrato rispetto alla musica ha fatto nascere la voglia
ad altri musicisti di seguire questo percorso. Comunque è chiaro che
parlare dei pianisti che sono nati dopo di me è una cosa semplice,
secondo me il discorso è molto più complesso».
A breve inizierà il tour, date previste un po’ in tutto il mondo…
«Sì, iniziamo il 1 febbraio a Cagli, poi Bari, Roma, e prossimamente
diverse date in Europa, Stati Uniti e Canada. La vera novità è la mia
prima volta all’Olympya di Parigi, una bella soddisfazione».
Federico Scoppio