05/01/2011
Francesco Valente, Gionata Mirai, Giulio Ragno Favero, Pierpaolo Capovilla: insieme formano il Teatro degli orrori.
Il Cd italiano più bello del 2010? Se non fosse quello di Zucchero, dei Negramaro, del maestro Paolo Conte, dei Pooh, di Francesco Renga ... Bensì quello di una band semisconosciuta, al di fuori dei circuiti della musica alternativa e rock? Parliamo del Teatro degli orrori e del loro A sangue freddo, seconda prova dopo Dell'impero delle tenebre.
Non è, la loro, una musica facile, né che può piacere a tutti. Perché allora indicare il loro lavoro come uno dei più interessanti del 2010, tanto più che in realtà è uscito alla fine del 2009? Cerchiamo di spiegarvi perché.
Le opere d'arte di valore non sono effimere, hanno una durata. Non a caso due brani di A sangue freddo sono tra i più trasmessi (nell'ambito degli indipendenti) dalle oltre trecento 300 del circuito web. Il più tramesso in assoluto è il loro A sangue freddo, proprio il brano che dà titolo all'album intero, dedicato a uno degli eroi dei nostri tempi, Ken Saro-Wiwa, scrittore e attivista nigeriano, difensore dei diritti della sua terra, di cui è da poco uscito il diario di prigionia (Un mese e un giorno, B. C. Dalai). Così veniamo al punto: Pierpaolo Capovilla e soci non fanno canzonette, ma affrontano di petto la vita, con tutti i suoi spigoli, le sue insensatezze, le sue infinite ipocrisie. Nei loro accuratissimi testi - fra i migliori nel panorama del cantautorato italiano - trovano voce sia le questioni personali ed esistenziali (la solitudine, l'amore, la paura), sia quelle sociali (terzo mondo, catastrofi naturali, povertà). Privato e pubblico, intrecciati fra loro: si parla tanto di amore, cercato, perduto, desiderato, e al tempo stesso si chiama in causa Dio o si denunciano le spine dei nostri giorni.
Oltre alla già citata A sangue freddo, ricordiamo un Padre nostro violento, duro, ma a nostro avviso non blasfemo, in cui si invoca Dio di liberarci dalla malinconia, ma anche dal malaugurio, dai maldicenti, dagli ignoranti, dai terremoti, dalla fame. Un grido disperato, segno di sensibilità, di un dialogo comunque non interrotto, e infinatemente meglio dell'indifferenza, della superficialità o dell'apatia.
Tutto ciò trova esressione sul piano musicale in un linguaggio rock che non disdegna affatto squarci di melodia, spesso affidati agli archi, con citazioni del meglio della nostra tradizione, da De Gregori a Celentano.
Paolo Perazzolo