25/03/2013
Il musicista sardo Paolo Fresu (Milestone). Nella copertina: foto Corbis.
È una delle bandiere del "jazz made in Italy" nel mondo. Uno dei trombettisti italiani più rinomati all'estero. Vanta una produzione musicale sterminata e un calendario fitto di appuntamenti e concerti in Italia e in giro per il mondo. Ma senza mai dimenticare le sue radici, Berchidda, la Sardegna. «La voce del mio strumento è prepotentemente legata alla mia isola», commenta Paolo Fresu. «Essere nato in Sardegna, un territorio così particolare e definito,
un'isola al centro del Mediterraneo, significa riconoscersi in
un'identità molto precisa. E' difficile che la Sardegna non forgi il
pensiero e la mentalità dei suoi abitanti. Rimane sempre presente, ancora di più in un'artista». Il legame viscerale con la sua terra si esprime, da 26 anni, con la promozione nel suo paese natale, Berchidda (in provincia di Olbia-Tempio) del festival Time in jazz (per una settimana ad agosto), ormai appuntamento storico consolidato per questo genere musicale italiano e internazionale.
Mercoledì 27 marzo Paolo Fresu riceve un prestigioso riconoscimento dall'Università di Milano-Bicocca: la laurea magistrale honoris causa in Psicologia dei processi sociali, decisionali e dei comportamenti economici, che sottolinea l'importante impegno del musicista sardo come operatore culturale nelle comunità della sua terra natale.
Che effetto le fa ricevere una laurea honoris causa in materie psicologiche?
«Mi fa un enorme piacere. Rispetto ai numerosi premi che ho ricevuto in questi anni, fra cui ad esempio tre cittadinanze onorarie, questa onorificenza è un po' speciale: non viene data a me come musicista, ma per il mio incessante lavoro come stimolatore culturale. Nel 1988 ho creato un festival, "Time in jazz", in un paesino minuscolo come Berchidda, il mio luogo di nascita. In questi 25 anni abbiamo operato un piccolo miracolo: Berchidda non aveva una centralità culturale, è un paese con una vocazione agro-pastorale, non aveva niente a che fare con il jazz. Il festival ha messo in campo un centinaio di volontari che lavorano tutto l'anno per organizzare l'evento, ha creato un'atmosfera speciale e un importante indotto economico. Tutte queste motivazioni fanno del festival quell'impossibile possibile che è il titolo della mia lectio magistralis: è la dimostrazione di come un luogo piccolo e marginale possa improvvisamente diventare il centro del mondo grazie alla volontà, alla passione e a una dinamica sociale accogliente, in un momento storico in cui i piccoli centri si spopolano a vantaggio della grandi città, perdendo i loro giovani. Questa laurea va condivisa con chi ha creduto fortemente in un progetto apparentemente folle. In un periodo così difficile, in cui si vive una lacerazione dei valori e una diatriba sul ruolo della cultura in seno alla società, una laurea data per questi motivi ha un enorme significato».
L'Italia sta investendo ancora poco sulla cultura. La politica non ha compreso a pieno che la cultura ha una rilevanza enorme anche come risorsa economica. Cosa ne pensa?
«In primo luogo non va dimenticato che la cultura ha un valore fine a se stesso, è fondamentale per la crescita e lo sviluppo dell'uomo in quanto individuo:una persona colta, che va al cinema, ascolta la musica, visita i musei, ama l'arte, sa guardare meglio dentro se stessa e relazionarsi meglio con il prossimo. Se dessimo più valore alla cultura ci sarebbero meno scontri, meno guerre, meno brutture. L'arte è il bello per antonomasia, anche quando si esprime come provocazione. E poi c'è l'aspetto della produzione economica, decisamente rilevante. E i risultati del nostro festival lo dimostrano: ciò che "Time in jazz" produce in termini economici è cinque volte di più di quello che costa. In una terra come la Sardegna, dove è difficile recuperare risorse private dalle aziende, un ritorno economico simile, che genera un'economia dinamica e un reinvestimento sul territorio, non solo di immagine, è davvero straordinario. Speriamo che i nostri politici riescano a dare centralità al problema dello sviluppo culturale».
Nel 1988 quanto è stato difficile dare vita a un festival di jazz in un paese sardo?
«Non è stato facile, ma nemmeno troppo difficile: c'era la follia della novità, la gente poi si fidava del fatto che ero io il promotore. Il jazz era visto come una musica d'Oltreocano, figuriamoci se questo genere potesse avere un significato in un paese dove c'erano soltanto pecore e animali. Gli abitanti lo vedevano come una cosa estranea, non riuscivano a scorgere il suo potenziale di crescita. Poi, pian piano la gente ha cominciato a capire, a prendere coscienza di ciò che la nostra proposta culturale poteva offrire. Oggi sono tutti molto convinti ed entusiasti del festival: ne hanno compreso l'enorme importanza e il valore, anche come opportunità di incontro umano e di apertura al mondo. Inoltre, abbiamo cercato di far sentire il jazz come un mezzo di comunicazione non avulso dalla realtà sarda, coniugandolo con le tradizioni e il folklore del luogo».
Come è nata, da ragazzino, la sua vocazione per il jazz?
«Da bambino suonavo nella banda musicale del paese. Poi ho cominciato con i piccoli complessi: giravamo nei vari paesi per suonare alle feste patronali. In seguito ho ascoltato il jazz alla radio e ho cominciato ad appassionarmi. Io sono un grande fan delle bande musicali, una grande scuola non solo di musica ma anche di vita. In Italia, fortunatamente, c'è ancora uno zoccolo duro di bande locali che resiste. Io ogni anno torno a suonare con la banda di Berchidda. La musica è condivisione. E, mi creda, suonare con gli altri è la cosa più difficile: significa essere concentrati su se stessi ma allo stesso tempo concentrarsi sugli altri. La musica è un linguaggio, è necessario ascoltare, trovare il tempo giusto in sintonia con l'altro. Quando si arriva a questo risultato significa che il musicista è diventato un artista».
Giulia Cerqueti