23/05/2013
La spettacolare scenografia del "Crepuscolo degli dei" alla Scala.
Ancora oggi, quando si vuole dare un giudizio sulle capacità tecnico-organizzative di un teatro d’opera, inevitabilmente si fa riferimento all’Anello del Nibelungo, colossale ciclo di quattro drammi musicali scritti da Richard Wagner in anni diversi, ma concepiti per essere rappresentati uno dietro l’altro nel giro di pochi giorni: sono, secondo la traduzione italiana, ormai da tempo dismessa in favore delle versioni lingua originale, un Prologo (L’oro del Reno) seguito da tre “giornate” (La walkiria, Sigfrido e Il crepuscolo degli dei).
La scommessa consiste nel riuscire ad allestire nel corso di una sola stagione l’intera Tetralogia, come viene comunemente denominata. All’estero, in particolar modo nei teatri dell’area tedesca, l’impresa non è insolita. Lo è molto di più in Italia, dove l’avvenimento appare sempre circondato da un’aura di eccezionalità (d’altra parte un quarto di secolo fa il Regio di Torino rischiò quasi il fallimento, e quest’anno il Massimo di Palermo ha dovuto rinunciare alle due ultime giornate). La Scala non è da meno, e va dunque riconosciuto a Stéphane Lissner il merito di aver proposto una soluzione che – dopo cinquant’anni esatti – presenterà due cicli della Tetralogia dal 17 al 29 giugno, in coproduzione con la Staatsoper Unter den Linden di Berlino.
Come anticipazione alla scorpacciata prossima ventura, in questi giorni sta comunque andando in scena Il crepuscolo degli dei (Götterdämmerung). Lo spettacolo firmato da Guy Cassiers è ovviamente sganciato dalla tradizione, ma in modo meno traumatico di quanto ci si potrebbe aspettare da un regista che si muove nell’ottica del cosiddetto “teatro di regia” di stampo tedesco. Le luci, gli effetti visivi e le spiccate doti attoriali dei cantanti giocano un ruolo determinante per la riuscita dello spettacolo, con qualche caduta di stile ma anche con una visione generale a tratti di singolare efficacia, specialmente nel drammatico finale.
Un'altra suggestiva scena dell'opera.
Sotto il profilo musicale le cose sarebbero andate in modo
complessivamente accettabile, se non fosse per l’insufficiente
prestazione del protagonista che ha reso precario l’equilibro generale.
Karl-Heinz Steffens ha in ogni caso sostituito con notevole
autorevolezza l’indisposto Daniel Barenboim (che però sarà sul podio per
la Tetralogia), e Bruno Casoni ha guidato il coro con la consueta
maestria. La compagnia di canto, che denuncia gli evidenti limiti della
situazione attuale (se Verdi piange, Wagner non ride), era imperniata
sulla svettante (ma anche commossa) Brunilde di Iréne Theorin e sulla
Waltraute della veterana Waltraud Meier (personalità affascinante, ma
voce in declino), attorniate da Anna Samuil (decorosa Gutruna), e dalle
efficienti Figlie del Reno.
Il pallido Hagen di Mikhail Petrenk non
conferiva adeguata consistenza al versante maschile, il cui vero punto
debole era rappresentato da Lance Ryan, voce stimbrata e perennemente
oscillante. Non basta la figura atletica e prestante per affidare il
peso della Tetralogia a questo tenore che – statura a parte – potrebbe
impersonare Mime, non certo l’eroe Sigfrido. Al pubblico di oggi sembra
invece andare benissimo così, come testimoniano le calorose accoglienze
tributate a tutti i componenti di un’impresa poco celebrativa del
bicentenario wagneriano.
Giorgio Gualerzi