17/05/2012
Eraldo Affinati, insegnante, scrittore, è anche un collaboratore di "Famiglia Cristiana".
«Maestro buono, che cosa devo
fare per ereditare la vita eterna?». La domanda che il giovane
ricco rivolse a Gesù (Mc
10,17) continua a risuonare nella mano di un
figlio tesa verso il padre, nello sguardo che lo
studente avido di sapere rivolge all’insegnante,
nell’attenzione dell’apprendista per i gesti
esperti di un anziano. Fin dal giorno in cui veniamo
alla luce, nelle aule della vita rinnoviamo
la domanda capace di dischiudere una via
percorrendo la quale, divenuti noi stessi, possiamo
occupare il nostro posto nel mondo. E
quanto più il disorientamento cresce, tanto
più forte è la nostalgia di quella voce.
Lo sperimentò a fondo Gaston Courtois, il
grande religioso autore di Quando il maestro
parla al cuore, penultimo testo della
Biblioteca universale cristiana, disponibile con il numero di Famiglia Cristiana ora in edicola. Per immetterci
in quell’energia misteriosa che scorre fra un
maestro e il suo discepolo, abbiamo interpellato
Eraldo Affinati, scrittore e doppiamente
“maestro”: come professore di lettere in un istituto
professionale della Città dei ragazzi (dedicata
all’educazione dei giovani a rischio di devianza)
e come fondatore e insegnante della
scuola di italiano per stranieri Penny Wirton.
Maestri si nasce o si diventa? E' una vocazione o un mestiere?
«Maestro si nasce e si diventa, allo stesso tempo. All'università, quando studiavo lettere, non pensavo che avrei fatto l'insegnante, ma la prima volta che entrai in un'aula scolastica, avrò avuto vent'anni, non ero ancora laureato, si trattava di una supplenza, capii subito d'istinto, semplicemente guardando i ragazzi, che quello era il mio mondo. Sentivo uno spazio magnetico fra me e gli alunni che avevo di fronte: lo stesso che continuo a percepire adesso, più di trent'anni dopo. Era qualcosa di profondo, legato alla mia solitudine di adolescente, che io riconoscevo, di volta in volta, nella rabbia, nell'insofferenza, nella malinconia degli studenti. Come se rivedessi me stesso in loro. C'erano ferite da sanare. Persone da rimettere in piedi. Lacrime da asciugare. Se io fossi riuscito a fare questo, pensai, avrei affermato un principio di umanità sul quale altri avrebbero potuto lavorare. Da allora ho dovuto forgiare la mia attitudine modellandola sugli ambienti nei quali mi trovavo. È come se ogni volta che mi presento davanti ai ragazzi, incidessi un solco, dentro e fuori di me. Io entrerò nella loro memoria e loro entreranno nella mia: questa consapevolezza sprigiona energia».
Una scena di "L'attimo fuggente", con Robin Williams nel ruolo di professore.
In che cosa consiste l'insegnamento: nei contenuti che si trasmettono
o nella relazione che si costruisce?
«I contenuti sono importanti, ma
se non ci fosse la relazione non servirebbero a niente. Ogni competenza
sarebbe vana se l'insegnante non fosse riuscito a conquistare la fiducia
dei suoi studenti. Qualsiasi talento sarebbe sterile in mancanza di un
vero rapporto. L'adulto si deve mettere in gioco mostrando di aver già
compiuto le scelte che il giovane ancora non ha fatto. Solo così
diventerà credibile. Il maestro è chiamato a svolgere due compiti
apparentemente contraddittori: si deve mettere accanto ai suoi scolari,
spalla a spalla, come fosse un amico, ma anche davanti a loro, alla
maniera di un ostacolo da superare. Se riesce a fare entrambe le
operazioni in modo naturale, di sicuro sarà seguito. Ma non potrà
evitare di star male perché dovrà assorbire le tensioni emotive del
gruppo di bambini e-o adolescenti che sarà chiamato a guidare.
L'importante è restare lucidi, equilibrati, essendo i responsabili etici
del rapporto umano che si crea. Proprio oggi mi è capitato di dover
dividere due adolescenti venuti alle mani. Una parola di troppo e
immediatamente c'è stato lo scontro fisico. Poteva finir male. È
bastata una mezz'oretta per aiutarli a capire l'errore. A quindici,
sedici anni, tutto avviene molto rapidamente: è sempre guerra e pace».
Che cosa ti ha insegnato la tua personale esperienza di "maestro"?
«Ho capito che bisogna rompere la finzione pedagogica: far finta di
spiegare, far finta di ascoltare. Bisogna uscire dal mansionario.
Assumersi la responsabilità dello sguardo altrui. Rendersi conto che il
peggiore degli studenti compie sempre un passo in avanti rispetto alla
situazione da cui proviene. I ragazzi devono percepire che tu sei
davvero interessato a loro. I nostri padri avrebbero usato
un'espressione molto più semplice che noi quasi ci vergogniamo a
pronunciare: devono capire che tu gli vuoi bene. Come scrittore sapevo
che l'esperienza da sola è muta, cieca, sorda; ma come insegnante ho
scoperto che anche l'espressione, senza la vita, rischia di essere
vuota, sterile, un semplice gioco di prestigio».
Quali sono stati,
per la tua vita e per il tuo essere scrittore, i tuoi maestri?
«Il mio
primo libro, intitolato Veglia d'armi, era un breviario interiore a
partire dall'opera di Lev Tolstoj, il più grande scrittore-insegnante
dell'epoca moderna. Credo che oggi i contadini che imparavano da lui a
leggere e scrivere siano i minorenni non accompagnati che arrivano in
Italia da tutto il mondo, i quali devono riuscire a pensare nella nostra
lingua, se vogliono diventare adulti e trovare un lavoro. Un altro
maestro per me decisivo è stato Dietrich Bonhoeffer, sul quale ho
scritto Un teologo contro Hitler. Questo grande cristiano militante,
fatto impiccare dal Führer nel lager di Flossenbürg. pochi giorni prima
della fine della Seconda guerra mondiale, mi ha insegnato che la vera
libertà non consiste nel superamento del limite, bensì nella sua
accettazione. E infine, come non ricordare Mario Rigoni Stern, che ho
avuto la fortuna di conoscere personalmente, per aver curato tutta la
sua opera nei Meridiani della Mondadori: le passeggiate che abbiamo
fatto insieme, io, lui e mia moglie, nei boschi dell'Altipiano di Asiago
sono state per me decisive quanto le sue pagine. Lui mi ha fatto capire
cosa significa non dividere mai il pensiero dall'azione».
Il volume proposto con il numero di "Famiglia Cristiana" ora in edicola.
Non
hai l'impressione che i tempi che stiamo vivendo scontino una drammatica
carenza di veri maestri?
«Io penso che i maestri ci siano ancora ma
hanno perduto la ribalta dei riflettori. I falsi maestri li hanno
sostituiti. Ma, prima o poi, quelli veri riprenderanno il posto che gli
spetta».
Come discernere il buono dal cattivo maestro?
«Basta
vedere gli occhi dei suoi scolari: se brillano, oppure restano spenti».
Per informazioni sulla Biblioteca universale cristiana (Buc): www.famigliacristiana.it/iniziative/buc
Paolo Perazzolo