21/06/2012
Enrico Brizzi (1974), bolognese, si è imposto con "Jack Frusciante è uscito dal gruppo". Ha poi praticato una originale “narrativa del viandante” e dato vita a un filone di “fantastoria”.
Raggiungiamo Enrico Brizzi al telefono, mentre si avvicina per lui la meta del suo viaggio a piedi (a tappe di una quarantina di chilometri al giorno) da Roma a Venezia, sulle tracce dell’itinerario di Giuseppe e Anita Garibaldi. Il gusto del cammino e del contatto con la natura Brizzi, oggi trentottenne, l’ha imparato da piccolo, come boyscout. Un’esperienza, quella dello scoutismo, che racconta nel suo ultimo libro, La legge della giungla (Laterza, pagine 302, euro 14,00).
Brizzi, ci vuole raccontare come è iniziata la sua esperienza da scout?
«Era un po’ una tradizione della mia famiglia, zii e cugini erano stati scout prima di me. Però nessuno mi ha forzato, anzi era un mio desiderio molto forte: vedevo questi bambini e ragazzi nelle loro belle divise, ne invidiavo gli eleganti cappellini e non vedevo l’ora di essere anch’io come loro. Avevano l’aria di divertirsi un mondo, usavano un linguaggio in codice, insomma mi sembravano una conventicola di iniziati. Così dall’età di 8 anni in poi sono stato prima lupetto, poi esploratore e infine membro del clan, cioè il gruppo dei più grandi. Fino alle soglie dell’università sono stato un boyscout felice e orgoglioso di esserlo».
Che cosa ha trovato in quell’ambiente?
«Insieme alla scuola, alla parrocchia e alla famiglia, lo scoutismo è stato il mio luogo formativo. Vi ho trovato la passione della vita all’aria aperta, ma anche il senso dell’importanza della lealtà a una regola, quello che, trasposto su un piano adulto, potremmo forse chiamare senso civico. Una lealtà spontanea, non imposta dall’alto. Ho trovato un ambiente attento a proteggere e a valorizzare i più deboli, gli stessi ragazzi che magari altrove venivano sopraffatti o derisi dal gruppo dei pari».
La copertina del libro di Brizzi.
Ritiene questa proposta educativa valida ancora oggi?
«Assolutamente sì, tanto che lo scorso settembre ho iscritto mia figlia
Cloe, che ha 8 anni. E ho già pre-iscritto le altre mie due figlie, Maia
e Altea, entrambe di 7 anni. Penso che lo scoutismo aiuti i ragazzi a
crescere e i genitori a capire che il loro compito non è quello di
ossessionare i figli con le proprie paure e preoccupazioni, bensì quello
di spingerli a muoversi nel mondo in maniera autonoma e responsabile.
Quando c’è una guida adeguata, i ragazzi imparano in fretta. Certo, la
prima volta che Cloe ha trascorso due notti fuori casa con gli altri
lupetti, da padre ho provato un po’ di comprensibile apprensione. Ma poi
è prevalso un sentimento di tenerezza e di fiducia, ricordando che cosa
quelle prime uscite, alla sua stessa età, avevano significato per me».
Quanto è stata forte la dimensione spirituale e religiosa nel suo
percorso come scout?
«Nei gruppi dell’Agesci, l’associazione scoutista cattolica, era
centrale. Si trattava però di un cattolicesimo direi molto istintivo.
Non sentivamo la partecipazione alla Messa domenicale come un obbligo o
un pegno da pagare, ma come un momento di festa e di gioia. Ricordo dei
sacerdoti straordinari che erano i nostri assistenti spirituali. Il loro
non era tanto un cristianesimo dogmatico, quanto un insistere sui
valori fondamentali del Vangelo. Ci insegnavano a vivere quei valori
nella concretezza della nostra vita di ragazzi: la correttezza nei
rapporti, l’attenzione ai bisogni dell’altro, la non violenza, il
perdono. Tutte cose che da allora ho cercato, a volte con fatica ma
sempre in maniera convinta, di trasferire nella mia vita di adulto».
Roberto Carnero